Negli anni Sessanta si verificò in Italia un cambiamento radicale nella ricezione degli sport da parte del grande pubblico: la presenza di spettatori allo stadio crebbe del 30%, mentre le riprese televisive portarono lo sport all’interno delle abitazioni private: le proprietà paternalistiche dei principali club calcistici si trasformarono in società per azioni, avviando così quel processo di professionalizzazione e spettacolarizzazione dei contenuti sportivi (Whannel 2009). L’evento sportivo si trasformò così in un evento «vortextual», provocato dall’impatto combinato dell’erosione della distinzione pubblico-privato, dal declino dei poteri di regolamentazione e censura e dalla crescita del culto della celebrità, combinata con l’espansione dei media e l’aumento della velocità di circolazione delle informazioni (Whannel 2009). Nello stesso decennio infine, fecero la comparsa i primi gruppi ultras, avviando così un intenso dibattito, che sarebbe proseguito negli anni successivi, sulla necessità di istituire una profonda azione educativa in grado di contrastare tale fenomeno e restituire lo sport alla sua funzione ludica di pratica di massa (Molinari, Toni 2018), allo scopo di evitare l’inasprirsi di quello scontro culturale che vedeva contrapposti i giovani, che avevano cercato di rendere lo sport un simbolo di modernità, e le istituzioni, le quali, al contrario, avevano intenzione di servirsi dello sport per rafforzare una società elitaria (Lemonnier, Attali, Parisse 2016). In questa ottica euristica la storia sportiva necessita di un riconoscimento della società nella sua complessità e della capacità di spiegare, secondo la lezione di Hobsbawm, i processi di cambiamento sociale (Hill 2003). Il presente intervento intende verificare, attraverso la lettura delle carte conservate presso l’Archivio Privato di Giosuè Poli, quali rapporti emersero nel corso del Convegno «Stampa e Sport», svoltosi a Bari nel 1965, tra le istituzioni sportive e la stampa italiana, ritenuta colpevole dal Coni di «mitizzare» i professionisti dello sport, incoraggiando la gioventù alla pratica delle attività sportive più lucrose a danno di quelle dilettantistiche. All’interno di questo consesso emersero diverse visioni del ruolo che il singolo soggetto – dirigente, giornalista o atleta – avrebbe dovuto ricoprire all’interno di un processo di rinnovamento educativo e morale delle discipline sportive. Le conclusioni espresse al termine del convegno andarono oltre una ri-definizione dei rapporti esistenti fra stampa e istituzioni sportive, dimostrando come, a partire dagli anni Sessanta, la stessa definizione di attività sportiva fosse posta in crisi, perdendo il suo carattere semantico univoco, a favore invece di un’affermazione di un linguaggio giornalistico sportivo interessato più al commento e alla valutazione dell’evento sportivo e meno ai contenuti, in un’ottica aggregante che presuppone la lettura del periodico sportivo come rito sociale. La stampa poté dunque riservarsi il ruolo di mantenere e prolungare il dibattito acceso dalle trasmissioni sportive televisive, confezionando così per il pubblico sportivo una serie di cronache sportive percepite come una via di fuga dai problemi che, al contrario, apparivano nelle prime pagine dei quotidiani (Berkow 2008). I tifosi cercarono, infatti, attraverso un processo di appartenenza strutturatosi attorno a una specifica squadra, un rifugio dall’anonimato urbano: un ritorno a una comunità immaginata, costituita prevalentemente da soggetti di sesso maschile (Kennedy 2001).

1968: una rivoluzione sportiva. Dallo sport dilettantistico allo sport spettacolo

Domenico Francesco Antonio Elia
2020-01-01

Abstract

Negli anni Sessanta si verificò in Italia un cambiamento radicale nella ricezione degli sport da parte del grande pubblico: la presenza di spettatori allo stadio crebbe del 30%, mentre le riprese televisive portarono lo sport all’interno delle abitazioni private: le proprietà paternalistiche dei principali club calcistici si trasformarono in società per azioni, avviando così quel processo di professionalizzazione e spettacolarizzazione dei contenuti sportivi (Whannel 2009). L’evento sportivo si trasformò così in un evento «vortextual», provocato dall’impatto combinato dell’erosione della distinzione pubblico-privato, dal declino dei poteri di regolamentazione e censura e dalla crescita del culto della celebrità, combinata con l’espansione dei media e l’aumento della velocità di circolazione delle informazioni (Whannel 2009). Nello stesso decennio infine, fecero la comparsa i primi gruppi ultras, avviando così un intenso dibattito, che sarebbe proseguito negli anni successivi, sulla necessità di istituire una profonda azione educativa in grado di contrastare tale fenomeno e restituire lo sport alla sua funzione ludica di pratica di massa (Molinari, Toni 2018), allo scopo di evitare l’inasprirsi di quello scontro culturale che vedeva contrapposti i giovani, che avevano cercato di rendere lo sport un simbolo di modernità, e le istituzioni, le quali, al contrario, avevano intenzione di servirsi dello sport per rafforzare una società elitaria (Lemonnier, Attali, Parisse 2016). In questa ottica euristica la storia sportiva necessita di un riconoscimento della società nella sua complessità e della capacità di spiegare, secondo la lezione di Hobsbawm, i processi di cambiamento sociale (Hill 2003). Il presente intervento intende verificare, attraverso la lettura delle carte conservate presso l’Archivio Privato di Giosuè Poli, quali rapporti emersero nel corso del Convegno «Stampa e Sport», svoltosi a Bari nel 1965, tra le istituzioni sportive e la stampa italiana, ritenuta colpevole dal Coni di «mitizzare» i professionisti dello sport, incoraggiando la gioventù alla pratica delle attività sportive più lucrose a danno di quelle dilettantistiche. All’interno di questo consesso emersero diverse visioni del ruolo che il singolo soggetto – dirigente, giornalista o atleta – avrebbe dovuto ricoprire all’interno di un processo di rinnovamento educativo e morale delle discipline sportive. Le conclusioni espresse al termine del convegno andarono oltre una ri-definizione dei rapporti esistenti fra stampa e istituzioni sportive, dimostrando come, a partire dagli anni Sessanta, la stessa definizione di attività sportiva fosse posta in crisi, perdendo il suo carattere semantico univoco, a favore invece di un’affermazione di un linguaggio giornalistico sportivo interessato più al commento e alla valutazione dell’evento sportivo e meno ai contenuti, in un’ottica aggregante che presuppone la lettura del periodico sportivo come rito sociale. La stampa poté dunque riservarsi il ruolo di mantenere e prolungare il dibattito acceso dalle trasmissioni sportive televisive, confezionando così per il pubblico sportivo una serie di cronache sportive percepite come una via di fuga dai problemi che, al contrario, apparivano nelle prime pagine dei quotidiani (Berkow 2008). I tifosi cercarono, infatti, attraverso un processo di appartenenza strutturatosi attorno a una specifica squadra, un rifugio dall’anonimato urbano: un ritorno a una comunità immaginata, costituita prevalentemente da soggetti di sesso maschile (Kennedy 2001).
2020
978-88-255-3255-5
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/401469
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