1 GIUSTIZIA E PERDONO CONSIDERAZIONI A MARGINE DEL FENOMENO DEL PENTITISMO ERNESTO CIANCIOLA* Ciò che mi propongo di svolgere in questa sede è una riflessione (hegelianamente intesa) sul tema del pentitismo che per la particolarità degli interventi che seguiranno appare come una ricerca in corpore viri. Una suggestiva attenzione che importa per tutti noi una consapevolezza e, in ultima analisi, una percezione intellettuale di tutto ciò che si andrà esponendo1. Giudicare, premiare, condannare e perdonare sono davvero archetipi della nostra razionalità? Sono categorie mentali attraverso le quali l’uomo può arrogarsi, così, semplicemente, di pronunciare verdetti e ritenerli di per sé giusti? E la giuridicità dove risiederebbe? Saremmo tutti un popolo di sapientes? Ognuno di noi, chiunque tra noi, avrebbe un non ben qualificato senso della giustizia capace di discernere tra giusto e non giusto, vero e falso. Quando si parla di pentitismo, il primo logos collegato è: perdono. A qualcuno, infatti, potrebbero venir in mente, come termini correlati, quasi sottile gioco di parole, sciarada, colpa, peccato, penitenza oppure reato o qualcosa di simile. Non nego che tale possibilità vi sia. Il problema è che, storicamente, la parola pentitismo è stata messa in relazione a un ben preciso status di un particolare soggetto atto a ricevere un favor a determinate condizioni:  di essere già colpevole;  di avere commesso un crimine di una certa gravità;  di volere collaborare con gli organi inquirenti con confessioni e delazioni. Appare, quindi, essere costitutiva del soggetto una situazione particolare, quasi che esista la condizione di (essere) pentito definibile come quel soggetto sul quale debba esercitarsi un perdono da parte di qualcuno (lo Stato). Ecco perché, a mio parere, i due termini: pentito e perdono sono tra loro uniti in un rapporto quasi causale. Nel suo aspetto diceologico, quando si parla di perdono non può che farsi riferimento alla evangelica espressione: “Iesus autem dicebat: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt“2. * Professore incaricato di Informatica Giuridica presso l’Università degli Studi di Bari, Corso di Laurea in Informatica e Comunicazione Digitale.Questo lavoro riproduce (pur con gli ovvi ritocchi che la trasposizione scritta di una relazione orale prevede) la conferenza tenuta a Taranto il 6 ottobre 2001 nel Convegno Il Pentitismo tra verità, giustizia e perdono: alla ricerca del garantismo perduto organizzato dal Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati di Taranto e dalla Scuola di Formazione e Aggiornamento Professionale Forense di Taranto e tra gli intervenuti vi fu il dott. Bruno Contrada. 1 Sul punto, Harold H. Joachim, La natura della verità, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1967. 2 Luca,23,33,g-h.. Da notare, ma è una sottile sfumatura, che la traduzione letterale (Padre, perdonali; infatti non sanno quello che fanno) sembra la più in sintonia con lo spirito evangelico, piuttosto che quella più libera, ma più nota, del Padre Praemiare pertinet ad quemlibet, punire non pertinet nisi ad ministrum legis. S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q.92, art.11. 2 Orbene, da una prima e fugace lettura di tale brano, emergono quelli che appaiono essere i requisiti minimi per dare/ottenere, in generale, il perdono:  Necessita che qualcuno lo richieda (anche per altri);  Un’autorità superiore che possa e non debba concederlo; la non consapevolezza di quel che si è compiuto/fatto da parte di colui che lo invoca/ottiene. Ma a ben analizzare il contemporaneo e noto fenomeno del pentitismo, non sembra possano qui ritrovarsi, ictu oculi, tutti gli elementi innanzi indicati che, sempre a mio parere, dovrebbero essere compresenti affinché possa parlarsi a pieno titolo di esercizio dell’azione cui irrogare il perdono. Al di là della naturale soglia del diritto che ognuno di noi ha di dire e mentire liberamente. E che soddisfi innanzitutto la nostra umana ragione3 con e per quella razionalità intrinseca che, di fronte a un’azione, alla fine del compimento di un atto, ci fa pronunciare con infinito e naturale orgoglio: è giusto! In fondo: il fenomeno del pentitismo è giusto o no? Ma il tutto può prescindere dal dato umano della relazione tra io e altro, tra il sé e tutto quello che lo circonda? Il pentimento quale riflesso ha su un altro soggetto diverso, si intende, dal perdonando? Ha una incidenza sul soggetto che lo invoca? Ed è uguale per tutti e in tutti i casi? Quale ruolo gioca la coscienza? È necessario e in che cosa consiste il ravvedimento? Esiste uno iato fattuale o uno apparente nel rapporto io/sé4 del pentendo e di coloro che devono rimettere il peccato? Non si dimentichi che il fenomeno, contingente e attuale, nasce sotto la stella della stagione dell’emergenza5 o anni di piombo al fine di consentire a un potere (quello perdona loro perché non sanno quello che fanno. Nella prima versione il perdono ha una consequenzialità logica ben definita: dovrebbe essere concesso dal Pater in virtù (enim, infatti) dello stato di non consapevolezza di coloro che hanno crocefisso l’Innocente. La forza del perdono, in buona sostanza, risiederebbe sì nella possibilità di azzerare le conseguenze poste contro chi compia una azione riprovevole/illegittima, di non irrogare alcuna la sanzione, ma soltanto nel caso in cui manchi la consapevolezza/responsabilità dell’azione medesima. Cosa ben diversa dal pentitismo di cui alla nota legislazione in materia!Adolfo Bachelet iniziava una sua riflessione (Il perdono oltre il pentimento. La sconcertante misura dell’amore cristiano, in Vita e Pensiero, Milano, 1984, fasc. 2, pagg. 29-37) proprio con lo stesso brano evangelico. L’altro brano tratto dal Pater Noster è sintomatico per altro verso. Qui è l’orante che chiede la rimessione dei propri peccati in funzione di una (quantomeno probabile) sua rimessione dei peccati (debiti) altrui. Et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.Per vero, come risulterà in prosieguo, una cosa sono i peccati, altra i reati! Rimane fermo il concetto che il perdono va richiesto a chi possa concederlo. La promessa di rimettere i debiti altrui sta a significare che anche noi possiamo trovarci in posizione dominante e, quindi, dotati del potere di azzerare i conti. Anche noi, in fondo, possiamo perdonare. È il grande dono della solidarietà! 3 È un rifarsi a quella ansia di filosofia pratica o sapere pratico che cerca di riappropriarsi il suo ruolo nella moderna epoca di una ritrovata polis per trattare delle emergenze (Agata Amato Mangiameli, Tra etica dei “fini” ed etica dei “doveri”. Alcuni percorsi al di qua e al di là dell’Atlantico, in Spicchi di Novecento, Giappichelli, Torcono, 1998, pagg. 309 e sgg. . 4 Quello che esiste tra ilo nostro io apparente e la nostra mente. Quello che esiste tra noi e la coscienza. 5 In tal senso, Sergio Ramajoli, “Pentitismo” e sua disciplina giuridica, in La Giustizia Penale, 1994, parte terza, 509 e sgg. L’autore, che analizza il fenomeno dal suo aspetto pratico, giustamente suggerisce una “regolamentazione unitaria e organica atteso che, allo stato attuale, non esiste una legge sui pentiti ma, se mai, delle disposizioni normative che, sparse qua e là nel nostro ordinamento, sono il frutto di una scelta politica dovuta a situazioni di contingenza, S. Ramajoli, op. cit., col. 509. Per un riferimento “storico” al fenomeno agli inizi degli anni ’80 con uno sguardo al recentissimo passato, Glauco Giostra, Dibattito a Macerata sulla tematica dei “pentiti”, note in margine al Convegno “Collaborazione e ravvedimento dell’imputato nella legislazione dell’emergenza”, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1981, fasc. 3, pagg. 1001-1006. Ancora, Ettore Palmieri, I “maxiprocessi” nell’esperienza giuridica italiana, in Rivista di Polizia, 1999, fasc.5, pag. 289-300. Non è mio compito analizzare il fenomeno nel suo aspetto processual-penalistico né compiere una riflessione anche sui passi compiuti dalla giurisprudenza tutta, anche quella costituzionale, sui pentiti e sui dissociati. È indubbio, però, che l’evoluzione sia stata caratterizzata da una politica di intervento tesa a premiare chi mostri effettivi segni di pentimento rispetto a chi si dissoci o si penta per un mero calcolo sulla pena da scontare. In tal senso, e a titolo meramente esemplificati, Vincenzo Adami, Appunti critici sulla giurisprudenza costituzionale, in Giust. Pen., 1981, fasc. 8-9, pt.1, pag. 258-276; Pier Paolo Rivello, Un significativo intervento della Corte Costituzionale in tema di raccordi tra la normativa sui “pentiti” e quella sui “dissociati”, in Legislazione penale, 1990, fasc.4, pt. 4, pagg. 733-742; Gabriele 3 giudiziario) di assicurare all’intero sistema la necessaria stabilità a tutela dell’ordine e della sicurezza collettiva. E di fatto consistente nel favorire chi si fosse pur macchiato di crimini gravissimi, attraverso un’opera di collaborazione, con una diminuzione delle pene e una attenuazione del giudizio di colpevolezza6. Garantendo, in fondo, che gli altri, i cittadini, avrebbero gradito e tollerato quest’atto di benevolenza, di clemenza, per il superiore fine della attuazione pratica della giustizia. Un perdono, un atto di grande colpo di spugna, per proteggere la comunità da altri soggetti che hanno/avrebbero commesso crimini più gravi. E per far ciò, apparirebbe quasi necessario perdonare (soltanto un po’) colui che collabora con gli organi inquirenti facendo, però, espressa richiesta di tanto con un atto, un gesto di reprimenda consistente nella confessione di un reato commesso quasi pentendosi di quanto compiuto. Questi sarebbero i requisiti minimi che dovrebbero pre-esistere al momento della concessione del beneficio invocato. Certo che conversione, pentimento, confessione, ravvedimento, perdono sono “termini forti” che non si attagliano in modo perfetto agli attori della commedia tutta umana che si recita nelle stanze della giustizia. E, forse, s’è fatta una grande confusione di concetti al solo fine di giustificare un’azione tutto sommato banale e corrente consistente (solamente e di fatto) nel mitigare le sanzioni che andrebbero inflitte alla condizione che il soggetto al quale dovrebbero, per l’appunto, essere applicate, aiuti effettivamente l’autorità che indaga al fine di assicurare al potere altri soggetti rei di reati più o meno connessi, più o meno gravi; ma comunque colpevoli. Si sarebbe quindi attribuita troppa enfasi all’esercizio di un potere politico; quasi una giustificazione di ordine morale che nella specie non esiste. In verità non si può prescindere dal premettere ad ogni analisi, e in principal modo alla presente, che sebbene oggetto di riflessione sia l’uomo, pur tuttavia i punti di osservazione mutano e, conseguentemente, quasi oggetto di studio di psicoanalisi, l’essere umano si diversifica e cangia in modi e momenti a volte paralleli a volte contrapposti a volte sovrapposti. Si pensi alla diversità tra il piano etico, quello sociale, quello individuale, quello religioso e quello giuridico. Pur essendo comune, appunto, l’in sé considerato (l’uomo), questi appare, ai fini della responsabilità, in modo differente sì che il suo agire avrà ripercussioni e conseguenze di tipo diverso. Si pensi a un omicidio colposo che rimane un crimine per la coscienza dell’individuo, per la giustizia degli uomini diventa un episodio abbastanza semplice e facilmente… risarcibile, per la morale sarebbe comunque riprovevole, eccetera. Occorre quindi limitare il campo di indagine pur tentando di analizzare un minimo di fonti intese in senso lato. Gli spunti di questo breve studio sono: Chelazzi e Domenico Manzione, “Pentiti”, “dissociati” e trattamento sanzionatorio: una opportuna pronuncia di incostituzionalità dei giudici della Consulta, in Cassazione Penale, 1990, pt. 1, pagg. 997-1000; Giuseppe A. Veneziano, Indipendenza del pubblico ministero, segreto investigativo e protezione dei pentiti (a proposito della sentenza n.420 del 1995 della Corte Costituzionale), in Cassazione penale, 1996, fasc. 4, pagg. 1040-1063; Alfredo Mantovano, Causale di genere e movente del reato nella ricostruzione dei delitti di mafia, in base alla dichiarazione dei “pentiti”, in La Giustizia Penale, 1996, fasc.5,pt.3, pagg. 266-271; 6 All’ordinamento, comunque, erano già noti casi di non punibilità. Qui la questione è diversa dato il clima nel quale venne alla luce il primo provvedimento organico legislativo: la L.304 del 29.5.1982. esisteva, infatti, come precedente, la cosiddetta legge Cossiga, promulgata il 15 dicembre 1980 (soprattutto gli artt. 4 e 5 che prevedevano riduzioni di pena e impunità per alcuni reati di terrorismo). Per una storia e un’analisi dei diversi testi di legge e delle relazioni accompagnatorie, Adolfo Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa e il fenomeno dei “pentiti” nella società italiana, in Dir. Eccl., 1985, fasc. n.4, pagg. 633-658. sul punto vedi anche Luigi De Liguori, L’art. 309 c.p.: anacronismi e attualità (nota a Cass. Pen. I sez., 13 marzo 1984), in Cass. Pen., 1985, fasc. 6, pagg. 1072-1079. Di particolare interesse sono le considerazioni sul linguaggio adoperato dal legislatore in tema di non punibilità per le bande armate come afferenti a termini militareschi che appaiono inopportuni e inadeguati alla fattispecie in esame! 4  Cosa debba intendersi per perdono;  Chi possa (o debba) perdonare;  Chi possa/debba essere perdonato;  Quando, come e perché;  Se vi sia perdono in presenza di qualche utilitas; È evidente che l’analisi non potrà essere ultimativa né satisfativa. Tenterà di pervenire a una qualche verità minima che soddisfi sempre la razionalità che, essendo umana, è naturalmente limitata. Un accenno breve sul concetto di verità. Nel caso che ci occupa, infatti, essa occupa un posto di primo piano in quanto costituisce il contenuto delle dichiarazioni che un pentito rende durante il corso di un giudizio. La verità è sorpresa! leggevo in una lirica. E, in effetti, è davvero così. Essa, quando compare, appare all’attenzione della nostra mente, ci lascia meravigliati e colpiti. È preliminare inquadrare anche l’ambito del linguaggio del pentito che non è quello deontico (delle norme) o valutativo dei giudizi; esso è aletico, cioè quello nel quale vi sono asserzioni vere o false perché, appunto, asseriscono vero o falso un qualche ente o fatto o situazione. Quindi, per la stessa natura/struttura del linguaggio adoperato, ogni asserzione deve essere provata nel suo assunto se non sia oggettivamente verificabile. Una cosa, infatti, è dire: Questa è una automobile (che è davanti agli occhi dell’osservatore), altra cosa è dire: Tizio ha fatto questo. Perciò stesso vi sono verità e verità, anche a seconda dei linguaggi adoperati (penso a espressioni del tipo: Questo dolce è veramente buono: come provarla se un soggetto, ad esempio, ha il gusto alterato o non può assaggiare e , quindi, provare, perché, ad esempio, diabetico; oppure: È giusto punire quei determinati delitti e non altri perché…e qui le ragioni potrebbero essere diverse e anche tra loro in contrasto - si pensi a differenti ideologie o ambiti diversi di tutela - e così via). In altri termini: apparentemente non vi è una sola certezza ma tutto è soggetto e assoggettato al dubbio e, pertanto, obbligatoriamente verificabile e da provare! Trionfo del relativismo? Può essere! E le certezze, allora, dove sarebbero? Vi è una verità assoluta e fondante, vi sono delle verità assolute, vi sono, ancora, delle verità relative o minori? La risposta è, in questo ambito, soggettiva e minimamente oggettiva. Infatti, secondo me, un esempio della prima è identificabile con un Principio Primo animatore e ispiratore del Tutto: la Legge, il Logos, Dio, Allah, JEVE, eccetera. Infatti vi è una differenza tra conoscere la verità e possedere la verità. Diceva a proposito della verità S. Tommaso: “Est quod quid est”. Vi sono, poi, verità incomunicabili (penso a quelle iniziatiche, ai segreti, eccetera. Vi è tutta una letteratura in materia) ma che col nostro discorso non c’entrano. Ricordo l’evangelico Nolite sanctum dare canibus. Dobbiamo, quindi, distinguere, per il fine che mi sono proposto, tra: Verità in senso morale, religioso e giuridico. Più nel dettaglio. Verità e Dovere dice Giorgio Del Vecchio: “Noi abbiamo il dovere di ricercare il vero e, per quanto possiamo raggiungerlo, di rispettarlo e conformare ad esso il nostro operare”7. In sede morale, quindi, noi dobbiamo cercare la verità, per quanto sia nei nostri mezzi e possibilità, e dobbiamo conformarci ad essa. Vi sono dei casi nei quali è 7 G. Del Vecchio, La Verità nella morale e nel diritto, Editrice Studium, Roma, 1954, p.14. 5 lecito (possibile) mentire, ma sempre per ottenere un bene superiore. Corrisponde, in buona sostanza, alla più nota regola dell’honeste vivere. Nella religione, qualunque essa sia, non vi è possibilità di mentire (anche se voi tutti ricorderete l’episodio di S. Pietro che rinnega la conoscenza del Cristo, ma lì aveva avuto il compito di fondare la Chiesa e doveva necessariamente salvarsi!). E la verità, però, può essere svelata (non ri-velata che significa coprirla due volte!) solo a pochi, a i più meritevoli o a quelli che hanno compiti ben precisi nei disegni divini (di qualunque divinità si tratti!). Nel diritto (che è cosa ben diversa dalla giustizia) la verità apparirebbe come un obbligo per conseguire scopi consentiti (ottenere un certo giudizio favorevole/sfavorevole; vincere/perdere una causa; essere o no riconosciuto innocente). Circa il rapporto Verità/Giustizia vorrei solo segnalare che già S. Tommaso affermava che “Veritas (est) pars justitiae quia est ad alterum”. Sicché, per essere sintetici il più possibile, il rapporto che lega la verità alla giustizia si incardina nei precetti del diritto naturale classici riconducibili, in via di esemplificazione all’honeste vivere (già ricordato in sede morale, ma la giustizia ne è parte integrante), all’alterum non laedere e al suum cuique tribuere. La figura del pentito, che dice (dovrebbe dire) la verità, si incardina in un processo giudiziario nel quale vi sono delle norme a linguaggio deontico e delle asserzioni a valenza aletica. Da questo momento possono, quindi, nascere normali equivoci terminologici e di discorso. Occorre, quindi, ora cercare di intendersi sul termine perdono. Inevitabile il riferimento a quello cristiano8, posto che appare come il modello, per evidente matrice culturale, al quale si sarebbe riferito il legislatore. “… il dono e il per-dono, entrambi fortemente radicati di sensibilità di ognuno. Dono e perdono sono gratificanti per chi li dà e chi li riceve, sono espressione di generosità gratuita che non si attende corrispondenza; tuttavia possono tingersi di calcolato utilitarismo o di superbo senso di superiorità: si pensi al motto dannunziano “io ho quel che ho donato”. Nel brano riportato, il senso di questa riflessione. Capire quando ci si trovi di fronte a un grande gesto di clemenza e quando, invece, si voglia spacciare per atto morale ciò che sia meramente egoistico e di convenienza. Il perdono è essenzialmente gratuito. La sua struttura profonda non consente che vi sia la corresponsione, da parte di chi lo riceve, di una qualche cosa che ne rappresenti, ne integri una sorta di contraccambio. E, dall’altra parte, non esiste la pretesa a un 8 Osserva Carlo Maria Martini: “Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonato da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, mobilissimo, che dice l’anelito e una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore”, C.M. Martini, Sulla Giustizia, Mondadori, Milano, 1999, pagg. 52-53. La visione cristiana e cattolica (quella che continua a distinguere, per coerenza con i suoi insegnamenti, tra foro interno e foro esterno e che a monte di ogni cosa pone l’atto di fede come password per i diritti e doveri, gli obblighi e gli oneri, i premi e le punizioni sovrannaturali) è solamente uno dei tagli critici al problema del pentitismo così come offerto dalla nostra legislazione. È utile ai fini della indagine in quanto è dalla nostra cultura più facilmente percettibile lo iato logico esistente sull’uso di quella parola; si potrebbe parlare certamente di termine equivoco. Ma anche una morale naturalisticamente intesa o semplicemente indirizzata in senso razionale offre alla nostra ragione spunti per dubitare dell’assoluta chiarezza dell’espressione pentito/pentitismo. Solamente una assenza di morale e/o il riferimento a teorie deterministiche o nichilistiche può comportare una possibile accettazione del termine senza discussione, senza…. pentimenti! Se un soggetto è metro e riferimento di ogni cosa, se l’altro costituisce solo un mezzo kantianamente inteso, se la fredda ragione del proprio io più esasperato, dell’egocentrismo più caparbio diventa arbitro delle nostre azione, allora la volontà sarebbe libera (?) di decidere qualunque cosa anche quella di mentire, dire il falso, chiedere perdono per qualcosa che non si sia fatto, denunciare altri sapendoli innocenti pur di salvarsi. Ma ciò è un allontanarsi dalla verità, valore unico fondante anche la richiesta/concessione del perdono. 6 determinato comportamento del perdonando. Perdonante e perdonando, allora, sono su di un piano d’assoluta pariteticità ed eguaglianza, differenziati soltanto rispetto a un ipotetico osservatore. Quello che può verificarsi è che il perdono può essere richiesto ovvero concesso. La differenza risiede solo in un intuibile ordine di prospettiva. Ma non incide sulla sua efficacia o implica differenti valutazioni da parte dei soggetti del perdono (attivo che lo dà e passivo che lo riceve) o del perdono in se stesso considerato. Il motivo è semplice: a monte del perdono, infatti, biblicamente siede la carità. E carità/gratuità sono termini tra loro non differenziabili né scindibili. Tenderei a distinguere, per ora solo temporalmente, la figura del perdonando da quello del perdonato, come pure quella del perdonante da quella del perdonatore. Inoltre, come nel caso evangelico, non necessariamente la figura di colui che chiede il perdono coincide con quella di colui che ottiene il perdono. Infatti lì il Cristo, comunque inteso e considerato, sia come dio che come uomo, si badi, chiede/invoca che una Autorità che Lui in quel momento ritiene Superiore e in grado di farlo, eserciti tale potere, concedendo il perdono a terzi. Nel gesto caritativo del perdono la pretesa è un in sé ingiustificato e ingiustificabile. Ne discende da tanto che, affinché vi sia un effettivo perdono, il perdonante nulla deve concedere di più al perdonando e il perdonato, una volta ottenutolo, non debba sentirsi in dovere di ringraziare con gesti, fatti o parole il perdonante. Il che implica, ancora, che il perdono debba essere concesso senza nulla chiedere e/o richiedere e, ovviamente, debba essere richiesto senza doverselo necessariamente veder concesso e, quindi, aspettarselo e senza offrire nulla in cambio. Questa è una posizione di assoluta pariteticità dalla quale bisogna necessariamente partire per comprendere se ciò che costituisce atto di perdono possa o meno realizzarsi. Altrimenti si cadrebbe nel contesto del motto dannunziano di cui sopra o, per dirla in altro modo, nell’egocentrismo più esasperato. Infatti in un primo caso ci troveremmo nell’esercizio calcolato e mirato di un potere (concedo il perdono a chi mi conviene, come, quando e quanto io lo voglio) e nel secondo di un gesto invocato per non subire una giusta condanna9. Il perdono, infatti, viene concesso/richiesto per eliminare una colpa. Questo è il senso originario! Solamente chi abbia commesso qualcosa può beneficiare di un perdono. Ma forse, qui, si tratta più di liberarsi da un senso di colpa che non da una colpa vera e propria. Pur rivestendo il problema un aspetto coscienziale, si tratterebbe al più di un’operazione di rimozione piuttosto che di remissione. In questa ottica, quindi, apparirebbe superfluo il riferimento al brano evangelico riportato all’inizio. È indubbio che vi sia un equivoco non soltanto terminologico sul problema del pentitismo. Come giustamente notava Adolfo Longhitano (a proposito del valore della penitenza in relazione al pentitismo dei pentiti e dissociati), “dietro un linguaggio apparentemente uguale, esiste un mondo in cui le analogie e le diversità sono molto più frequenti delle identità”10. La “figura del collaborante, al pari di quella del confidente di 9 Nella direzione che il diritto alla assoluzione esiste solo se si è effettivamente pentiti, John Flader, The Right of spiritual goods of the Church: reflections on canon 213: “Perhaps it goes without saying that the faithful have the right to be absolved if they are properly disposed….Again, it is a matter of a strict right. Even if the penitent has confessed only venial sins or imperfections and, therefore, strictly speaking does not “need” absolution, he or she has a right to be absolved”, in Apollinaris, 1992, fasc. 1-2, pt. 3, pag.384. 10 A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa…, op. cit., pag.634. 7 polizia qualificato come essere abietto ma indispensabile”11 è oggi di indubbia utilità per le indagini degli organi inquirenti tutti. E ciò a prescindere anche dai ruoli che si giocano sul palcoscenico della giustizia formale. Basti por mente al rapporto che si viene a instaurare tra un pentito e il suo difensore. In ogni procedimento, in modo riduttivo ma essenziale, l’avvocato è l’intercessore tra un soggetto e la giustizia rappresentata dal magistrato. Nel caso dei pentiti, invece, la difesa avrebbe ben poco da dire o chiedere! L’intervento legislativo, si è detto, è da considerarsi più nell’ottica della premialità che in quella della sanzione. In ciò ingenerando un equivoco. A tal proposito ritengo eccessivo il riferirsi alla categoria del premio; in fondo pur sempre di sanzione si tratta. La ricompensa è sempre vista dall’ordinamento come un riconoscimento (negativo) a una azione vietata. Parlare di premio è riferirsi, quasi rifugiarsi in una categoria tipica della morale e non del diritto inteso, appunto, come ordinamento (kelsenianamente inteso) e, quindi, come interconnessione normativa finalizzata al raggiungimento della regolamentazione (controllo della vita) sociale. Forse sarebbe più appropriato parlare del funzionalismo giuridico come idea madre della legislazione sul pentitismo. L’argomento è stato trattato diffusamente da diversi autori e sapientemente somministrato ai … pazienti cives! La confusione di linguaggi ha creato una falsa (pseudo) aspettativa proprio in chi fruisce della sanzione. Una cosa, infatti, è la mitigazione della pena (da applicarsi e doverosamente) altra cosa è la ricompensa/premio12 per aver adempiuto a un precetto! Chi obbedisce a una norma, a un comando non può aspettarsi nulla. Proprio come nella tecnica del perdono. È il dovere insito nella obbedienza. La ricompensa per aver adempiuto il proprio dovere, forse, è una categoria riconducibile alla educazione piuttosto che al diritto, senza scivolare in pericolosi campi pavloviani! Che lo Stato abbia sostanzialmente adottato la tattica e la tecnica del perdonatore per soddisfare esigenze di politica criminale, appare scontato. Il criminale non è un povero peccatore in cerca di redenzione, né lo Stato è l’intermediatore con un Potere Superiore al quale ci si rivolge invocando la pietas per il ristabilimento della communio violata. Al più si potrebbe notare come lo Stato eserciti, apparentemente, per mezzo di uno dei suoi poteri, il baconiano sapere è potere. Attraverso la conoscenza degli avvenimenti (comunque ottenuti) da un soggetto, cerca di ricostruire una propria verità (dei fatti). A poco rilevando una effettiva corrispondenza tra diverse verità. E così “sapendo” può: condannare, assolvere e perdonare. Il che può apparire come una risposta agli interrogativi posti all’inizio di questa riflessione. L’esercizio del perdono appare, quindi, come una terza categoria del possibile-giuridico-esercitatile. Il gioco delle parole, poi, oltre all’intreccio dei linguaggi, apparentemente comuni ma che disvelano logiche con diverse finalità,13 sono 11 S. Ramajoli, “Pentitismo”.. op. cit., col.512 il quale riporta in nota tale definizione ripresa dalla sentenza della Cass. Pen. sez. I, 3 giugno 1986! 12 La cosiddetta sanzione positiva. Come tecnica (sostanziale e processuale) del premio derivante dalla ideologia utilitaristica, si veda F. Bricola, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in La questione criminale, 1981, 3, pag. 446. 13 “ Muovere dal linguaggio – guardandosi dalle ambiguità che esso contiene: il discorso fine a se stesso con funzione persuasiva…- significa, allora, inoltrarsi nel mondo della “comunicazione”; in quel mondo dove la parola mette in relazione uomini e nel quale appare insuperabile il legame – che è teoretico-gnoseologico e etico-pratico – tra verità e libertà. È libero colui che non può dire ciò che pensa? Dire ciò che si pensa, già nell’esperienza quotidiana, è il più semplice atto di verità e, insieme, di libertà; e la veridicità del dire è ciò che consente di riconoscere l’identità umana del parlante, perché attraverso il suo dire veridico il soggetto rivela l’autentico se stesso agli altri.” Bruno Montanari, Spicchi di Novecento, Introduzione, Giappichelli, Torino, 1998, pag.49. 8 all’origine del grande equivoco sul pentitismo.Lo Stato non voleva né vuole redimere nessuno né tanto meno qualcuno vuole assicurarsi la vita (sociale) eterna. Esso resta il detentore del potere di irrogare le sanzioni14 solamente negative e per i fini che, di volta in volta, reputati opportuni e doverosi. E non interessa sapere se il ravvedimento sia stato dettato da profonde ragioni etiche o da meri motivi di convenienza, se il pentendo/perdonando abbia sensi di colpa nel profondo del suo io o se, nel suo subconscio, si sia semplicemente insinuata l’idea di poterla fare franca nel minor tempo possibile o a costi accettabili. Logiche di mera convenienza e, pertanto, fattuali, hanno determinato l’uso sia dei collaboratori di giustizia (sic!) che del meccanismo del pentitismo. E tutto ciò deve avvenire nel quadro orientativo di una realtà formale. Infatti il momento accertativo della verità è da sempre stato ritenuto il processo. Al suo interno, però, ruotano parecchie verità. Alla verità del fatto si affianca quella del diritto e/o quella processuale. Quest’ultima è, in effetti, quella che interessa, quasi epidermicamente, all’ordinamento che deve soddisfare le sue esigenze formali di tutela. Trattasi di un intervento apparente, quasi res sicut apparet nella logica anche premiale del diritto che si avvale di ogni strumento ritenuto utile, come la statistica. Ma il processo si distingue e si differenzia dal rito propriamente inteso: nel primo, infatti, si seguono delle regole per conoscere la verità; nel secondo si seguono delle regole per possedere la verità.Al politico poco interessa sapere se vi sia stata vera e propria opera di pentimento, se si sia trattato di un falso o no, se ci sia stata una ingiusta imputazione a carico di altri pur di ottenere un risultato positivo nei propri confronti, quasi (un ritorno) al detto dannunziano. La verità del fatto, quella che effettivamente contiene in sé l’ombra della giustizia sostanziale, è sempre più lontana! La verità del diritto è quella ideale che dovrebbe aiutare l’interprete, una volta possedutala, a giudicare secundum veritatem. Ed è qui che il filtro coscienziale dovrebbe operare l’opera di ricostruzione dei fatti alla luce, appunto, della colpa e dei sensi di colpa, del ravvedimento effettivo e/o del pentimento, del perdono e della giustizia. E così la confusione sistematica dei linguaggi, lo schermo della politica, l’utilizzo della persona umana a fini pretestuosamente additati come superiori, giocano ruoli e strategie che allontanano tutti, noi e l’interprete e noi come interprete, dal procedimento fondente e fondante la verità quello della umana consapevolezza del vivere insieme e dell’in idem velle. Le distinzioni emerse in questi brevi spunti di riflessione, inducono più che a contestare l’idea in sé sul e del pentitismo, a far pensare a una sua diversa impostazione. Non apparirebbe neanche improntato ai canoni minimi etici il comportamento di uno Stato che, da una parte, consentisse/concedesse impunità o benefici a uomini che si sono macchiati di crimini efferati (anche non soltanto … politici) e, dall’altra, fosse irremovibile contro chi commette reati minori o di minor rilevanza mediatica. “Lo Stato non può dimostrasi sensibile solo alla logica del do ut des, ma deve anche saper valutare dal suo punto di vista e con i suoi parametri di giudizio questo fatto nuovo della società italiana”15. È forse lo stesso Stato che, alla fin fine, pare voglia liberarsi da uno strano senso di colpa: quello di non aver ben protetto e difeso tutti i suoi cittadini. 14 Qui intese in tutte le accezioni possibili di retribuzione, prevenzione, rieducazione, eccetera. Per un approfondimento, Sergio Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, sopratutto pagg.121 e sgg., nonché Mario A. Cattaneo, Il diritto come valore e il problema dela pena, in Società Norme e Valori, Studi in onore di Renato Treves, Giuffrè, Milano, 1984, pagg.167 e sgg. 15 A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa.., op. cit., pag.657. Il lavoro è datato ma le conclusioni sono attuali. Prosegue l’Autore con una riflessione che sento di condividere: “Ciò comporta la necessità: a) di delineare dal punto di vista 9 E appare quasi costretto ad adoperare lo strumento del perdono per fare giustizia. Anche questa è una probabile chiave di lettura dell’intero fenomeno. E allora, da tale prospettiva, il pentitismo ha, come fenomeno politico e giuridico, direi di sistema, una sua giustificazione in quanto appare finalizzato a perseguire16 comunque il bonum comune e che si realizza attraverso la duplice finalità di far pentire un reo (anche per un miglior inserimento nella vita sociale) e sconfiggere la criminalità, promettendo una miglior sicurezza ai cittadini. Assicurando così la piena coesistenza o, se si preferisce, garantendo la coesistenzialità. Infatti il fenomeno investe solo gli episodi più gravi, quelli che incidono maggiormente sul tessuto sociale, corpo laico e generale nel quale ci riconosciamo tutti come fratres, dove, quindi, anche il principio caritativo diventa operante, funzionale e fondante. Ma a patto di sapere, in anticipo, che il pentito può non dire la verità e che spetta obbligatoriamente (direi, ontologicamente), a chi voglia usare le sue asserzioni, PROVARLE SEMPRE E COMUNQUE a patto di non ritenersi socraticamente detentore (in anteprima, per intenderci), di nessuna verità e, quindi, di non pensare lontanamente di adottare la maieutica a chi, sempre ontologicamente, non possa partorire! In realtà il pentito, forse, per alcuni magistrati, non è stato altro che l’epigono o l’apoteosi dell’onnicentrismo filosofico di quel NON POTEVA NON SAPERE. E, chiuso in quella morsa o, meglio, trappola dialettica, schiavo del dogmatismo, di apparente conoscenza della verità, quasi novus sapiens della giustizia, egli è stato adorato e portato agli onori degli altari ancora in vita. Qui l’error in procedendo: ritenerlo sempre e comunque detentore d’una verità assoluta mentre, il più delle volte, non solo non la conosceva (né, ovviamente, la possedeva, nel senso su detto), ma, anzi, brancolava nel buio dell’irrazionalità, animato dalla sola sua fede cieca di salvarsi a ogni costo, utilizzando la menzogna sia come mezzo che come fine.Il tutto in una chiave di assoluta liceità comportamentale endo ed eso processuale. giuridico la figura del “dissociato” dando rilevanza al diverso comportamento assunto da questi cittadini, che hanno deciso di abbandonare la lotta armata e di inserirsi costruttivamente nella società, per delle motivazioni etiche giuridicamente apprezzabili; b) di stabilire criteri obiettivi di prove per distinguere la dissociazione da forme strumentali di pentimento; c) di evitare il più possibile che la concessione ai giudici di un eccessivo potere discrezionale comporti disparità di valutazione e di trattamento; d) di impedire che una indiscriminata riduzione di pene riporti al più presto in libertà persone che non hanno dato sufficienti garanzie di ravvedimento”, op. cit., pag. 657. è evidente che oggi non è più solo il fenomeno della lotta armata ad allertare lo Stato e allarmare i cittadini. Penso alla criminalità organizzata, alle bande minorili, alle gang orientali. Il problema degli sconti di pena e della premialità diffusa, se attuata con criteri di giustizia comune e egalitaria possono essere un supporto efficace alla limitazione del problema criminale, non certo provvedere alla sua eliminazione. La categoria dei pentiti e il fenomeno del pentitismo, quindi, vanno esaminate sempre e solo dal loro dato fattuale, nel caso per caso. Nulla più. Ma anche nulla meno. 16 Che per Sergio Cotta rappresenta il principio costitutivo, “il fondamento dell’aggregazione d’una pluralità di individui in un noi.”, Il diritto nell’esistenza, op. cit., pag.110. In realtà nel concetto di bene comune dobbiamo sussumere tutte le possibili finalità di uno stato, da quello liberista a quello etico a quello totalitario. Nelle diverse forme di stato, infatti, è il mezzo che muta, sono le tecniche di governo. Ma in ultima analisi nessuno stato può non avere di mira un valore che seppure non assiologico, resta fenomenologico.

Considerazioni sul pentimismo

CIANCIOLA, Ernesto
2006-01-01

Abstract

1 GIUSTIZIA E PERDONO CONSIDERAZIONI A MARGINE DEL FENOMENO DEL PENTITISMO ERNESTO CIANCIOLA* Ciò che mi propongo di svolgere in questa sede è una riflessione (hegelianamente intesa) sul tema del pentitismo che per la particolarità degli interventi che seguiranno appare come una ricerca in corpore viri. Una suggestiva attenzione che importa per tutti noi una consapevolezza e, in ultima analisi, una percezione intellettuale di tutto ciò che si andrà esponendo1. Giudicare, premiare, condannare e perdonare sono davvero archetipi della nostra razionalità? Sono categorie mentali attraverso le quali l’uomo può arrogarsi, così, semplicemente, di pronunciare verdetti e ritenerli di per sé giusti? E la giuridicità dove risiederebbe? Saremmo tutti un popolo di sapientes? Ognuno di noi, chiunque tra noi, avrebbe un non ben qualificato senso della giustizia capace di discernere tra giusto e non giusto, vero e falso. Quando si parla di pentitismo, il primo logos collegato è: perdono. A qualcuno, infatti, potrebbero venir in mente, come termini correlati, quasi sottile gioco di parole, sciarada, colpa, peccato, penitenza oppure reato o qualcosa di simile. Non nego che tale possibilità vi sia. Il problema è che, storicamente, la parola pentitismo è stata messa in relazione a un ben preciso status di un particolare soggetto atto a ricevere un favor a determinate condizioni:  di essere già colpevole;  di avere commesso un crimine di una certa gravità;  di volere collaborare con gli organi inquirenti con confessioni e delazioni. Appare, quindi, essere costitutiva del soggetto una situazione particolare, quasi che esista la condizione di (essere) pentito definibile come quel soggetto sul quale debba esercitarsi un perdono da parte di qualcuno (lo Stato). Ecco perché, a mio parere, i due termini: pentito e perdono sono tra loro uniti in un rapporto quasi causale. Nel suo aspetto diceologico, quando si parla di perdono non può che farsi riferimento alla evangelica espressione: “Iesus autem dicebat: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt“2. * Professore incaricato di Informatica Giuridica presso l’Università degli Studi di Bari, Corso di Laurea in Informatica e Comunicazione Digitale.Questo lavoro riproduce (pur con gli ovvi ritocchi che la trasposizione scritta di una relazione orale prevede) la conferenza tenuta a Taranto il 6 ottobre 2001 nel Convegno Il Pentitismo tra verità, giustizia e perdono: alla ricerca del garantismo perduto organizzato dal Consiglio dell’ Ordine degli Avvocati di Taranto e dalla Scuola di Formazione e Aggiornamento Professionale Forense di Taranto e tra gli intervenuti vi fu il dott. Bruno Contrada. 1 Sul punto, Harold H. Joachim, La natura della verità, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1967. 2 Luca,23,33,g-h.. Da notare, ma è una sottile sfumatura, che la traduzione letterale (Padre, perdonali; infatti non sanno quello che fanno) sembra la più in sintonia con lo spirito evangelico, piuttosto che quella più libera, ma più nota, del Padre Praemiare pertinet ad quemlibet, punire non pertinet nisi ad ministrum legis. S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q.92, art.11. 2 Orbene, da una prima e fugace lettura di tale brano, emergono quelli che appaiono essere i requisiti minimi per dare/ottenere, in generale, il perdono:  Necessita che qualcuno lo richieda (anche per altri);  Un’autorità superiore che possa e non debba concederlo; la non consapevolezza di quel che si è compiuto/fatto da parte di colui che lo invoca/ottiene. Ma a ben analizzare il contemporaneo e noto fenomeno del pentitismo, non sembra possano qui ritrovarsi, ictu oculi, tutti gli elementi innanzi indicati che, sempre a mio parere, dovrebbero essere compresenti affinché possa parlarsi a pieno titolo di esercizio dell’azione cui irrogare il perdono. Al di là della naturale soglia del diritto che ognuno di noi ha di dire e mentire liberamente. E che soddisfi innanzitutto la nostra umana ragione3 con e per quella razionalità intrinseca che, di fronte a un’azione, alla fine del compimento di un atto, ci fa pronunciare con infinito e naturale orgoglio: è giusto! In fondo: il fenomeno del pentitismo è giusto o no? Ma il tutto può prescindere dal dato umano della relazione tra io e altro, tra il sé e tutto quello che lo circonda? Il pentimento quale riflesso ha su un altro soggetto diverso, si intende, dal perdonando? Ha una incidenza sul soggetto che lo invoca? Ed è uguale per tutti e in tutti i casi? Quale ruolo gioca la coscienza? È necessario e in che cosa consiste il ravvedimento? Esiste uno iato fattuale o uno apparente nel rapporto io/sé4 del pentendo e di coloro che devono rimettere il peccato? Non si dimentichi che il fenomeno, contingente e attuale, nasce sotto la stella della stagione dell’emergenza5 o anni di piombo al fine di consentire a un potere (quello perdona loro perché non sanno quello che fanno. Nella prima versione il perdono ha una consequenzialità logica ben definita: dovrebbe essere concesso dal Pater in virtù (enim, infatti) dello stato di non consapevolezza di coloro che hanno crocefisso l’Innocente. La forza del perdono, in buona sostanza, risiederebbe sì nella possibilità di azzerare le conseguenze poste contro chi compia una azione riprovevole/illegittima, di non irrogare alcuna la sanzione, ma soltanto nel caso in cui manchi la consapevolezza/responsabilità dell’azione medesima. Cosa ben diversa dal pentitismo di cui alla nota legislazione in materia!Adolfo Bachelet iniziava una sua riflessione (Il perdono oltre il pentimento. La sconcertante misura dell’amore cristiano, in Vita e Pensiero, Milano, 1984, fasc. 2, pagg. 29-37) proprio con lo stesso brano evangelico. L’altro brano tratto dal Pater Noster è sintomatico per altro verso. Qui è l’orante che chiede la rimessione dei propri peccati in funzione di una (quantomeno probabile) sua rimessione dei peccati (debiti) altrui. Et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.Per vero, come risulterà in prosieguo, una cosa sono i peccati, altra i reati! Rimane fermo il concetto che il perdono va richiesto a chi possa concederlo. La promessa di rimettere i debiti altrui sta a significare che anche noi possiamo trovarci in posizione dominante e, quindi, dotati del potere di azzerare i conti. Anche noi, in fondo, possiamo perdonare. È il grande dono della solidarietà! 3 È un rifarsi a quella ansia di filosofia pratica o sapere pratico che cerca di riappropriarsi il suo ruolo nella moderna epoca di una ritrovata polis per trattare delle emergenze (Agata Amato Mangiameli, Tra etica dei “fini” ed etica dei “doveri”. Alcuni percorsi al di qua e al di là dell’Atlantico, in Spicchi di Novecento, Giappichelli, Torcono, 1998, pagg. 309 e sgg. . 4 Quello che esiste tra ilo nostro io apparente e la nostra mente. Quello che esiste tra noi e la coscienza. 5 In tal senso, Sergio Ramajoli, “Pentitismo” e sua disciplina giuridica, in La Giustizia Penale, 1994, parte terza, 509 e sgg. L’autore, che analizza il fenomeno dal suo aspetto pratico, giustamente suggerisce una “regolamentazione unitaria e organica atteso che, allo stato attuale, non esiste una legge sui pentiti ma, se mai, delle disposizioni normative che, sparse qua e là nel nostro ordinamento, sono il frutto di una scelta politica dovuta a situazioni di contingenza, S. Ramajoli, op. cit., col. 509. Per un riferimento “storico” al fenomeno agli inizi degli anni ’80 con uno sguardo al recentissimo passato, Glauco Giostra, Dibattito a Macerata sulla tematica dei “pentiti”, note in margine al Convegno “Collaborazione e ravvedimento dell’imputato nella legislazione dell’emergenza”, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1981, fasc. 3, pagg. 1001-1006. Ancora, Ettore Palmieri, I “maxiprocessi” nell’esperienza giuridica italiana, in Rivista di Polizia, 1999, fasc.5, pag. 289-300. Non è mio compito analizzare il fenomeno nel suo aspetto processual-penalistico né compiere una riflessione anche sui passi compiuti dalla giurisprudenza tutta, anche quella costituzionale, sui pentiti e sui dissociati. È indubbio, però, che l’evoluzione sia stata caratterizzata da una politica di intervento tesa a premiare chi mostri effettivi segni di pentimento rispetto a chi si dissoci o si penta per un mero calcolo sulla pena da scontare. In tal senso, e a titolo meramente esemplificati, Vincenzo Adami, Appunti critici sulla giurisprudenza costituzionale, in Giust. Pen., 1981, fasc. 8-9, pt.1, pag. 258-276; Pier Paolo Rivello, Un significativo intervento della Corte Costituzionale in tema di raccordi tra la normativa sui “pentiti” e quella sui “dissociati”, in Legislazione penale, 1990, fasc.4, pt. 4, pagg. 733-742; Gabriele 3 giudiziario) di assicurare all’intero sistema la necessaria stabilità a tutela dell’ordine e della sicurezza collettiva. E di fatto consistente nel favorire chi si fosse pur macchiato di crimini gravissimi, attraverso un’opera di collaborazione, con una diminuzione delle pene e una attenuazione del giudizio di colpevolezza6. Garantendo, in fondo, che gli altri, i cittadini, avrebbero gradito e tollerato quest’atto di benevolenza, di clemenza, per il superiore fine della attuazione pratica della giustizia. Un perdono, un atto di grande colpo di spugna, per proteggere la comunità da altri soggetti che hanno/avrebbero commesso crimini più gravi. E per far ciò, apparirebbe quasi necessario perdonare (soltanto un po’) colui che collabora con gli organi inquirenti facendo, però, espressa richiesta di tanto con un atto, un gesto di reprimenda consistente nella confessione di un reato commesso quasi pentendosi di quanto compiuto. Questi sarebbero i requisiti minimi che dovrebbero pre-esistere al momento della concessione del beneficio invocato. Certo che conversione, pentimento, confessione, ravvedimento, perdono sono “termini forti” che non si attagliano in modo perfetto agli attori della commedia tutta umana che si recita nelle stanze della giustizia. E, forse, s’è fatta una grande confusione di concetti al solo fine di giustificare un’azione tutto sommato banale e corrente consistente (solamente e di fatto) nel mitigare le sanzioni che andrebbero inflitte alla condizione che il soggetto al quale dovrebbero, per l’appunto, essere applicate, aiuti effettivamente l’autorità che indaga al fine di assicurare al potere altri soggetti rei di reati più o meno connessi, più o meno gravi; ma comunque colpevoli. Si sarebbe quindi attribuita troppa enfasi all’esercizio di un potere politico; quasi una giustificazione di ordine morale che nella specie non esiste. In verità non si può prescindere dal premettere ad ogni analisi, e in principal modo alla presente, che sebbene oggetto di riflessione sia l’uomo, pur tuttavia i punti di osservazione mutano e, conseguentemente, quasi oggetto di studio di psicoanalisi, l’essere umano si diversifica e cangia in modi e momenti a volte paralleli a volte contrapposti a volte sovrapposti. Si pensi alla diversità tra il piano etico, quello sociale, quello individuale, quello religioso e quello giuridico. Pur essendo comune, appunto, l’in sé considerato (l’uomo), questi appare, ai fini della responsabilità, in modo differente sì che il suo agire avrà ripercussioni e conseguenze di tipo diverso. Si pensi a un omicidio colposo che rimane un crimine per la coscienza dell’individuo, per la giustizia degli uomini diventa un episodio abbastanza semplice e facilmente… risarcibile, per la morale sarebbe comunque riprovevole, eccetera. Occorre quindi limitare il campo di indagine pur tentando di analizzare un minimo di fonti intese in senso lato. Gli spunti di questo breve studio sono: Chelazzi e Domenico Manzione, “Pentiti”, “dissociati” e trattamento sanzionatorio: una opportuna pronuncia di incostituzionalità dei giudici della Consulta, in Cassazione Penale, 1990, pt. 1, pagg. 997-1000; Giuseppe A. Veneziano, Indipendenza del pubblico ministero, segreto investigativo e protezione dei pentiti (a proposito della sentenza n.420 del 1995 della Corte Costituzionale), in Cassazione penale, 1996, fasc. 4, pagg. 1040-1063; Alfredo Mantovano, Causale di genere e movente del reato nella ricostruzione dei delitti di mafia, in base alla dichiarazione dei “pentiti”, in La Giustizia Penale, 1996, fasc.5,pt.3, pagg. 266-271; 6 All’ordinamento, comunque, erano già noti casi di non punibilità. Qui la questione è diversa dato il clima nel quale venne alla luce il primo provvedimento organico legislativo: la L.304 del 29.5.1982. esisteva, infatti, come precedente, la cosiddetta legge Cossiga, promulgata il 15 dicembre 1980 (soprattutto gli artt. 4 e 5 che prevedevano riduzioni di pena e impunità per alcuni reati di terrorismo). Per una storia e un’analisi dei diversi testi di legge e delle relazioni accompagnatorie, Adolfo Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa e il fenomeno dei “pentiti” nella società italiana, in Dir. Eccl., 1985, fasc. n.4, pagg. 633-658. sul punto vedi anche Luigi De Liguori, L’art. 309 c.p.: anacronismi e attualità (nota a Cass. Pen. I sez., 13 marzo 1984), in Cass. Pen., 1985, fasc. 6, pagg. 1072-1079. Di particolare interesse sono le considerazioni sul linguaggio adoperato dal legislatore in tema di non punibilità per le bande armate come afferenti a termini militareschi che appaiono inopportuni e inadeguati alla fattispecie in esame! 4  Cosa debba intendersi per perdono;  Chi possa (o debba) perdonare;  Chi possa/debba essere perdonato;  Quando, come e perché;  Se vi sia perdono in presenza di qualche utilitas; È evidente che l’analisi non potrà essere ultimativa né satisfativa. Tenterà di pervenire a una qualche verità minima che soddisfi sempre la razionalità che, essendo umana, è naturalmente limitata. Un accenno breve sul concetto di verità. Nel caso che ci occupa, infatti, essa occupa un posto di primo piano in quanto costituisce il contenuto delle dichiarazioni che un pentito rende durante il corso di un giudizio. La verità è sorpresa! leggevo in una lirica. E, in effetti, è davvero così. Essa, quando compare, appare all’attenzione della nostra mente, ci lascia meravigliati e colpiti. È preliminare inquadrare anche l’ambito del linguaggio del pentito che non è quello deontico (delle norme) o valutativo dei giudizi; esso è aletico, cioè quello nel quale vi sono asserzioni vere o false perché, appunto, asseriscono vero o falso un qualche ente o fatto o situazione. Quindi, per la stessa natura/struttura del linguaggio adoperato, ogni asserzione deve essere provata nel suo assunto se non sia oggettivamente verificabile. Una cosa, infatti, è dire: Questa è una automobile (che è davanti agli occhi dell’osservatore), altra cosa è dire: Tizio ha fatto questo. Perciò stesso vi sono verità e verità, anche a seconda dei linguaggi adoperati (penso a espressioni del tipo: Questo dolce è veramente buono: come provarla se un soggetto, ad esempio, ha il gusto alterato o non può assaggiare e , quindi, provare, perché, ad esempio, diabetico; oppure: È giusto punire quei determinati delitti e non altri perché…e qui le ragioni potrebbero essere diverse e anche tra loro in contrasto - si pensi a differenti ideologie o ambiti diversi di tutela - e così via). In altri termini: apparentemente non vi è una sola certezza ma tutto è soggetto e assoggettato al dubbio e, pertanto, obbligatoriamente verificabile e da provare! Trionfo del relativismo? Può essere! E le certezze, allora, dove sarebbero? Vi è una verità assoluta e fondante, vi sono delle verità assolute, vi sono, ancora, delle verità relative o minori? La risposta è, in questo ambito, soggettiva e minimamente oggettiva. Infatti, secondo me, un esempio della prima è identificabile con un Principio Primo animatore e ispiratore del Tutto: la Legge, il Logos, Dio, Allah, JEVE, eccetera. Infatti vi è una differenza tra conoscere la verità e possedere la verità. Diceva a proposito della verità S. Tommaso: “Est quod quid est”. Vi sono, poi, verità incomunicabili (penso a quelle iniziatiche, ai segreti, eccetera. Vi è tutta una letteratura in materia) ma che col nostro discorso non c’entrano. Ricordo l’evangelico Nolite sanctum dare canibus. Dobbiamo, quindi, distinguere, per il fine che mi sono proposto, tra: Verità in senso morale, religioso e giuridico. Più nel dettaglio. Verità e Dovere dice Giorgio Del Vecchio: “Noi abbiamo il dovere di ricercare il vero e, per quanto possiamo raggiungerlo, di rispettarlo e conformare ad esso il nostro operare”7. In sede morale, quindi, noi dobbiamo cercare la verità, per quanto sia nei nostri mezzi e possibilità, e dobbiamo conformarci ad essa. Vi sono dei casi nei quali è 7 G. Del Vecchio, La Verità nella morale e nel diritto, Editrice Studium, Roma, 1954, p.14. 5 lecito (possibile) mentire, ma sempre per ottenere un bene superiore. Corrisponde, in buona sostanza, alla più nota regola dell’honeste vivere. Nella religione, qualunque essa sia, non vi è possibilità di mentire (anche se voi tutti ricorderete l’episodio di S. Pietro che rinnega la conoscenza del Cristo, ma lì aveva avuto il compito di fondare la Chiesa e doveva necessariamente salvarsi!). E la verità, però, può essere svelata (non ri-velata che significa coprirla due volte!) solo a pochi, a i più meritevoli o a quelli che hanno compiti ben precisi nei disegni divini (di qualunque divinità si tratti!). Nel diritto (che è cosa ben diversa dalla giustizia) la verità apparirebbe come un obbligo per conseguire scopi consentiti (ottenere un certo giudizio favorevole/sfavorevole; vincere/perdere una causa; essere o no riconosciuto innocente). Circa il rapporto Verità/Giustizia vorrei solo segnalare che già S. Tommaso affermava che “Veritas (est) pars justitiae quia est ad alterum”. Sicché, per essere sintetici il più possibile, il rapporto che lega la verità alla giustizia si incardina nei precetti del diritto naturale classici riconducibili, in via di esemplificazione all’honeste vivere (già ricordato in sede morale, ma la giustizia ne è parte integrante), all’alterum non laedere e al suum cuique tribuere. La figura del pentito, che dice (dovrebbe dire) la verità, si incardina in un processo giudiziario nel quale vi sono delle norme a linguaggio deontico e delle asserzioni a valenza aletica. Da questo momento possono, quindi, nascere normali equivoci terminologici e di discorso. Occorre, quindi, ora cercare di intendersi sul termine perdono. Inevitabile il riferimento a quello cristiano8, posto che appare come il modello, per evidente matrice culturale, al quale si sarebbe riferito il legislatore. “… il dono e il per-dono, entrambi fortemente radicati di sensibilità di ognuno. Dono e perdono sono gratificanti per chi li dà e chi li riceve, sono espressione di generosità gratuita che non si attende corrispondenza; tuttavia possono tingersi di calcolato utilitarismo o di superbo senso di superiorità: si pensi al motto dannunziano “io ho quel che ho donato”. Nel brano riportato, il senso di questa riflessione. Capire quando ci si trovi di fronte a un grande gesto di clemenza e quando, invece, si voglia spacciare per atto morale ciò che sia meramente egoistico e di convenienza. Il perdono è essenzialmente gratuito. La sua struttura profonda non consente che vi sia la corresponsione, da parte di chi lo riceve, di una qualche cosa che ne rappresenti, ne integri una sorta di contraccambio. E, dall’altra parte, non esiste la pretesa a un 8 Osserva Carlo Maria Martini: “Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonato da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, mobilissimo, che dice l’anelito e una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore”, C.M. Martini, Sulla Giustizia, Mondadori, Milano, 1999, pagg. 52-53. La visione cristiana e cattolica (quella che continua a distinguere, per coerenza con i suoi insegnamenti, tra foro interno e foro esterno e che a monte di ogni cosa pone l’atto di fede come password per i diritti e doveri, gli obblighi e gli oneri, i premi e le punizioni sovrannaturali) è solamente uno dei tagli critici al problema del pentitismo così come offerto dalla nostra legislazione. È utile ai fini della indagine in quanto è dalla nostra cultura più facilmente percettibile lo iato logico esistente sull’uso di quella parola; si potrebbe parlare certamente di termine equivoco. Ma anche una morale naturalisticamente intesa o semplicemente indirizzata in senso razionale offre alla nostra ragione spunti per dubitare dell’assoluta chiarezza dell’espressione pentito/pentitismo. Solamente una assenza di morale e/o il riferimento a teorie deterministiche o nichilistiche può comportare una possibile accettazione del termine senza discussione, senza…. pentimenti! Se un soggetto è metro e riferimento di ogni cosa, se l’altro costituisce solo un mezzo kantianamente inteso, se la fredda ragione del proprio io più esasperato, dell’egocentrismo più caparbio diventa arbitro delle nostre azione, allora la volontà sarebbe libera (?) di decidere qualunque cosa anche quella di mentire, dire il falso, chiedere perdono per qualcosa che non si sia fatto, denunciare altri sapendoli innocenti pur di salvarsi. Ma ciò è un allontanarsi dalla verità, valore unico fondante anche la richiesta/concessione del perdono. 6 determinato comportamento del perdonando. Perdonante e perdonando, allora, sono su di un piano d’assoluta pariteticità ed eguaglianza, differenziati soltanto rispetto a un ipotetico osservatore. Quello che può verificarsi è che il perdono può essere richiesto ovvero concesso. La differenza risiede solo in un intuibile ordine di prospettiva. Ma non incide sulla sua efficacia o implica differenti valutazioni da parte dei soggetti del perdono (attivo che lo dà e passivo che lo riceve) o del perdono in se stesso considerato. Il motivo è semplice: a monte del perdono, infatti, biblicamente siede la carità. E carità/gratuità sono termini tra loro non differenziabili né scindibili. Tenderei a distinguere, per ora solo temporalmente, la figura del perdonando da quello del perdonato, come pure quella del perdonante da quella del perdonatore. Inoltre, come nel caso evangelico, non necessariamente la figura di colui che chiede il perdono coincide con quella di colui che ottiene il perdono. Infatti lì il Cristo, comunque inteso e considerato, sia come dio che come uomo, si badi, chiede/invoca che una Autorità che Lui in quel momento ritiene Superiore e in grado di farlo, eserciti tale potere, concedendo il perdono a terzi. Nel gesto caritativo del perdono la pretesa è un in sé ingiustificato e ingiustificabile. Ne discende da tanto che, affinché vi sia un effettivo perdono, il perdonante nulla deve concedere di più al perdonando e il perdonato, una volta ottenutolo, non debba sentirsi in dovere di ringraziare con gesti, fatti o parole il perdonante. Il che implica, ancora, che il perdono debba essere concesso senza nulla chiedere e/o richiedere e, ovviamente, debba essere richiesto senza doverselo necessariamente veder concesso e, quindi, aspettarselo e senza offrire nulla in cambio. Questa è una posizione di assoluta pariteticità dalla quale bisogna necessariamente partire per comprendere se ciò che costituisce atto di perdono possa o meno realizzarsi. Altrimenti si cadrebbe nel contesto del motto dannunziano di cui sopra o, per dirla in altro modo, nell’egocentrismo più esasperato. Infatti in un primo caso ci troveremmo nell’esercizio calcolato e mirato di un potere (concedo il perdono a chi mi conviene, come, quando e quanto io lo voglio) e nel secondo di un gesto invocato per non subire una giusta condanna9. Il perdono, infatti, viene concesso/richiesto per eliminare una colpa. Questo è il senso originario! Solamente chi abbia commesso qualcosa può beneficiare di un perdono. Ma forse, qui, si tratta più di liberarsi da un senso di colpa che non da una colpa vera e propria. Pur rivestendo il problema un aspetto coscienziale, si tratterebbe al più di un’operazione di rimozione piuttosto che di remissione. In questa ottica, quindi, apparirebbe superfluo il riferimento al brano evangelico riportato all’inizio. È indubbio che vi sia un equivoco non soltanto terminologico sul problema del pentitismo. Come giustamente notava Adolfo Longhitano (a proposito del valore della penitenza in relazione al pentitismo dei pentiti e dissociati), “dietro un linguaggio apparentemente uguale, esiste un mondo in cui le analogie e le diversità sono molto più frequenti delle identità”10. La “figura del collaborante, al pari di quella del confidente di 9 Nella direzione che il diritto alla assoluzione esiste solo se si è effettivamente pentiti, John Flader, The Right of spiritual goods of the Church: reflections on canon 213: “Perhaps it goes without saying that the faithful have the right to be absolved if they are properly disposed….Again, it is a matter of a strict right. Even if the penitent has confessed only venial sins or imperfections and, therefore, strictly speaking does not “need” absolution, he or she has a right to be absolved”, in Apollinaris, 1992, fasc. 1-2, pt. 3, pag.384. 10 A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa…, op. cit., pag.634. 7 polizia qualificato come essere abietto ma indispensabile”11 è oggi di indubbia utilità per le indagini degli organi inquirenti tutti. E ciò a prescindere anche dai ruoli che si giocano sul palcoscenico della giustizia formale. Basti por mente al rapporto che si viene a instaurare tra un pentito e il suo difensore. In ogni procedimento, in modo riduttivo ma essenziale, l’avvocato è l’intercessore tra un soggetto e la giustizia rappresentata dal magistrato. Nel caso dei pentiti, invece, la difesa avrebbe ben poco da dire o chiedere! L’intervento legislativo, si è detto, è da considerarsi più nell’ottica della premialità che in quella della sanzione. In ciò ingenerando un equivoco. A tal proposito ritengo eccessivo il riferirsi alla categoria del premio; in fondo pur sempre di sanzione si tratta. La ricompensa è sempre vista dall’ordinamento come un riconoscimento (negativo) a una azione vietata. Parlare di premio è riferirsi, quasi rifugiarsi in una categoria tipica della morale e non del diritto inteso, appunto, come ordinamento (kelsenianamente inteso) e, quindi, come interconnessione normativa finalizzata al raggiungimento della regolamentazione (controllo della vita) sociale. Forse sarebbe più appropriato parlare del funzionalismo giuridico come idea madre della legislazione sul pentitismo. L’argomento è stato trattato diffusamente da diversi autori e sapientemente somministrato ai … pazienti cives! La confusione di linguaggi ha creato una falsa (pseudo) aspettativa proprio in chi fruisce della sanzione. Una cosa, infatti, è la mitigazione della pena (da applicarsi e doverosamente) altra cosa è la ricompensa/premio12 per aver adempiuto a un precetto! Chi obbedisce a una norma, a un comando non può aspettarsi nulla. Proprio come nella tecnica del perdono. È il dovere insito nella obbedienza. La ricompensa per aver adempiuto il proprio dovere, forse, è una categoria riconducibile alla educazione piuttosto che al diritto, senza scivolare in pericolosi campi pavloviani! Che lo Stato abbia sostanzialmente adottato la tattica e la tecnica del perdonatore per soddisfare esigenze di politica criminale, appare scontato. Il criminale non è un povero peccatore in cerca di redenzione, né lo Stato è l’intermediatore con un Potere Superiore al quale ci si rivolge invocando la pietas per il ristabilimento della communio violata. Al più si potrebbe notare come lo Stato eserciti, apparentemente, per mezzo di uno dei suoi poteri, il baconiano sapere è potere. Attraverso la conoscenza degli avvenimenti (comunque ottenuti) da un soggetto, cerca di ricostruire una propria verità (dei fatti). A poco rilevando una effettiva corrispondenza tra diverse verità. E così “sapendo” può: condannare, assolvere e perdonare. Il che può apparire come una risposta agli interrogativi posti all’inizio di questa riflessione. L’esercizio del perdono appare, quindi, come una terza categoria del possibile-giuridico-esercitatile. Il gioco delle parole, poi, oltre all’intreccio dei linguaggi, apparentemente comuni ma che disvelano logiche con diverse finalità,13 sono 11 S. Ramajoli, “Pentitismo”.. op. cit., col.512 il quale riporta in nota tale definizione ripresa dalla sentenza della Cass. Pen. sez. I, 3 giugno 1986! 12 La cosiddetta sanzione positiva. Come tecnica (sostanziale e processuale) del premio derivante dalla ideologia utilitaristica, si veda F. Bricola, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in La questione criminale, 1981, 3, pag. 446. 13 “ Muovere dal linguaggio – guardandosi dalle ambiguità che esso contiene: il discorso fine a se stesso con funzione persuasiva…- significa, allora, inoltrarsi nel mondo della “comunicazione”; in quel mondo dove la parola mette in relazione uomini e nel quale appare insuperabile il legame – che è teoretico-gnoseologico e etico-pratico – tra verità e libertà. È libero colui che non può dire ciò che pensa? Dire ciò che si pensa, già nell’esperienza quotidiana, è il più semplice atto di verità e, insieme, di libertà; e la veridicità del dire è ciò che consente di riconoscere l’identità umana del parlante, perché attraverso il suo dire veridico il soggetto rivela l’autentico se stesso agli altri.” Bruno Montanari, Spicchi di Novecento, Introduzione, Giappichelli, Torino, 1998, pag.49. 8 all’origine del grande equivoco sul pentitismo.Lo Stato non voleva né vuole redimere nessuno né tanto meno qualcuno vuole assicurarsi la vita (sociale) eterna. Esso resta il detentore del potere di irrogare le sanzioni14 solamente negative e per i fini che, di volta in volta, reputati opportuni e doverosi. E non interessa sapere se il ravvedimento sia stato dettato da profonde ragioni etiche o da meri motivi di convenienza, se il pentendo/perdonando abbia sensi di colpa nel profondo del suo io o se, nel suo subconscio, si sia semplicemente insinuata l’idea di poterla fare franca nel minor tempo possibile o a costi accettabili. Logiche di mera convenienza e, pertanto, fattuali, hanno determinato l’uso sia dei collaboratori di giustizia (sic!) che del meccanismo del pentitismo. E tutto ciò deve avvenire nel quadro orientativo di una realtà formale. Infatti il momento accertativo della verità è da sempre stato ritenuto il processo. Al suo interno, però, ruotano parecchie verità. Alla verità del fatto si affianca quella del diritto e/o quella processuale. Quest’ultima è, in effetti, quella che interessa, quasi epidermicamente, all’ordinamento che deve soddisfare le sue esigenze formali di tutela. Trattasi di un intervento apparente, quasi res sicut apparet nella logica anche premiale del diritto che si avvale di ogni strumento ritenuto utile, come la statistica. Ma il processo si distingue e si differenzia dal rito propriamente inteso: nel primo, infatti, si seguono delle regole per conoscere la verità; nel secondo si seguono delle regole per possedere la verità.Al politico poco interessa sapere se vi sia stata vera e propria opera di pentimento, se si sia trattato di un falso o no, se ci sia stata una ingiusta imputazione a carico di altri pur di ottenere un risultato positivo nei propri confronti, quasi (un ritorno) al detto dannunziano. La verità del fatto, quella che effettivamente contiene in sé l’ombra della giustizia sostanziale, è sempre più lontana! La verità del diritto è quella ideale che dovrebbe aiutare l’interprete, una volta possedutala, a giudicare secundum veritatem. Ed è qui che il filtro coscienziale dovrebbe operare l’opera di ricostruzione dei fatti alla luce, appunto, della colpa e dei sensi di colpa, del ravvedimento effettivo e/o del pentimento, del perdono e della giustizia. E così la confusione sistematica dei linguaggi, lo schermo della politica, l’utilizzo della persona umana a fini pretestuosamente additati come superiori, giocano ruoli e strategie che allontanano tutti, noi e l’interprete e noi come interprete, dal procedimento fondente e fondante la verità quello della umana consapevolezza del vivere insieme e dell’in idem velle. Le distinzioni emerse in questi brevi spunti di riflessione, inducono più che a contestare l’idea in sé sul e del pentitismo, a far pensare a una sua diversa impostazione. Non apparirebbe neanche improntato ai canoni minimi etici il comportamento di uno Stato che, da una parte, consentisse/concedesse impunità o benefici a uomini che si sono macchiati di crimini efferati (anche non soltanto … politici) e, dall’altra, fosse irremovibile contro chi commette reati minori o di minor rilevanza mediatica. “Lo Stato non può dimostrasi sensibile solo alla logica del do ut des, ma deve anche saper valutare dal suo punto di vista e con i suoi parametri di giudizio questo fatto nuovo della società italiana”15. È forse lo stesso Stato che, alla fin fine, pare voglia liberarsi da uno strano senso di colpa: quello di non aver ben protetto e difeso tutti i suoi cittadini. 14 Qui intese in tutte le accezioni possibili di retribuzione, prevenzione, rieducazione, eccetera. Per un approfondimento, Sergio Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, sopratutto pagg.121 e sgg., nonché Mario A. Cattaneo, Il diritto come valore e il problema dela pena, in Società Norme e Valori, Studi in onore di Renato Treves, Giuffrè, Milano, 1984, pagg.167 e sgg. 15 A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa.., op. cit., pag.657. Il lavoro è datato ma le conclusioni sono attuali. Prosegue l’Autore con una riflessione che sento di condividere: “Ciò comporta la necessità: a) di delineare dal punto di vista 9 E appare quasi costretto ad adoperare lo strumento del perdono per fare giustizia. Anche questa è una probabile chiave di lettura dell’intero fenomeno. E allora, da tale prospettiva, il pentitismo ha, come fenomeno politico e giuridico, direi di sistema, una sua giustificazione in quanto appare finalizzato a perseguire16 comunque il bonum comune e che si realizza attraverso la duplice finalità di far pentire un reo (anche per un miglior inserimento nella vita sociale) e sconfiggere la criminalità, promettendo una miglior sicurezza ai cittadini. Assicurando così la piena coesistenza o, se si preferisce, garantendo la coesistenzialità. Infatti il fenomeno investe solo gli episodi più gravi, quelli che incidono maggiormente sul tessuto sociale, corpo laico e generale nel quale ci riconosciamo tutti come fratres, dove, quindi, anche il principio caritativo diventa operante, funzionale e fondante. Ma a patto di sapere, in anticipo, che il pentito può non dire la verità e che spetta obbligatoriamente (direi, ontologicamente), a chi voglia usare le sue asserzioni, PROVARLE SEMPRE E COMUNQUE a patto di non ritenersi socraticamente detentore (in anteprima, per intenderci), di nessuna verità e, quindi, di non pensare lontanamente di adottare la maieutica a chi, sempre ontologicamente, non possa partorire! In realtà il pentito, forse, per alcuni magistrati, non è stato altro che l’epigono o l’apoteosi dell’onnicentrismo filosofico di quel NON POTEVA NON SAPERE. E, chiuso in quella morsa o, meglio, trappola dialettica, schiavo del dogmatismo, di apparente conoscenza della verità, quasi novus sapiens della giustizia, egli è stato adorato e portato agli onori degli altari ancora in vita. Qui l’error in procedendo: ritenerlo sempre e comunque detentore d’una verità assoluta mentre, il più delle volte, non solo non la conosceva (né, ovviamente, la possedeva, nel senso su detto), ma, anzi, brancolava nel buio dell’irrazionalità, animato dalla sola sua fede cieca di salvarsi a ogni costo, utilizzando la menzogna sia come mezzo che come fine.Il tutto in una chiave di assoluta liceità comportamentale endo ed eso processuale. giuridico la figura del “dissociato” dando rilevanza al diverso comportamento assunto da questi cittadini, che hanno deciso di abbandonare la lotta armata e di inserirsi costruttivamente nella società, per delle motivazioni etiche giuridicamente apprezzabili; b) di stabilire criteri obiettivi di prove per distinguere la dissociazione da forme strumentali di pentimento; c) di evitare il più possibile che la concessione ai giudici di un eccessivo potere discrezionale comporti disparità di valutazione e di trattamento; d) di impedire che una indiscriminata riduzione di pene riporti al più presto in libertà persone che non hanno dato sufficienti garanzie di ravvedimento”, op. cit., pag. 657. è evidente che oggi non è più solo il fenomeno della lotta armata ad allertare lo Stato e allarmare i cittadini. Penso alla criminalità organizzata, alle bande minorili, alle gang orientali. Il problema degli sconti di pena e della premialità diffusa, se attuata con criteri di giustizia comune e egalitaria possono essere un supporto efficace alla limitazione del problema criminale, non certo provvedere alla sua eliminazione. La categoria dei pentiti e il fenomeno del pentitismo, quindi, vanno esaminate sempre e solo dal loro dato fattuale, nel caso per caso. Nulla più. Ma anche nulla meno. 16 Che per Sergio Cotta rappresenta il principio costitutivo, “il fondamento dell’aggregazione d’una pluralità di individui in un noi.”, Il diritto nell’esistenza, op. cit., pag.110. In realtà nel concetto di bene comune dobbiamo sussumere tutte le possibili finalità di uno stato, da quello liberista a quello etico a quello totalitario. Nelle diverse forme di stato, infatti, è il mezzo che muta, sono le tecniche di governo. Ma in ultima analisi nessuno stato può non avere di mira un valore che seppure non assiologico, resta fenomenologico.
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