L’obbligo alimentare tra genitori e figli, tutelato dalla metà del secondo secolo in via straordinaria, trova organica disciplina in D. 25.3.5 pr.-17, L. 2063 che, sotto la rubrica De agnoscendis et alendis liberis vel parentibus vel patronis vel libertis, raccoglie un lungo frammento escerpito dal secondo libro De officio consulis di Ulpiano. Questa testimonianza viene assunta quale punto di partenza per un’analisi di alcuni profili del giudizio alimentare. Da una prima lettura del testo, si apprende che un non meglio identificato iudex decideva se e in che misura andavano prestati gli alimenti, tenendo conto delle condizioni patrimoniali dei soggetti e valutando se vi fossero ragioni che giustificassero il rifiuto di corrispondere gli alimenti. L’obbligo alimentare discendeva dal rapporto di filiazione tra le parti in causa. Se il convenuto sosteneva di non dover alimentare, negando di essere figlio o padre dell’alimentando, lo stesso giudice competente per il procedimento alimentare doveva summatim cognoscere della questione. Il giudice alimentare valutava, cioè, sulla base delle prove più facilmente acquisibili o forse anche in base alla sola attendibilità delle dichiarazioni delle parti, se decretare o meno gli alimenti. Questa interpretazione discende dall’ipotesi, sostenuta nel saggio, della genuinità della locuzione summatim cognoscere. Se dall’esame esame sommario del giudice alimentare fosse risultato il rapporto di filiazione tra le parti, il giudice avrebbe decretato gli alimenti. Ma come si legge in D. 25.3.5.9, la decisione del giudizio alimentare in questo caso, afferma Ulpiano, praeiudicium non facit veritati: l’imperatore Marco Aurelio aveva chiarito che con essa si stabiliva solo l’obbligo di corrispondere gli alimenti e non la qualità di figlio. Come come interpretare il termine veritas? In D. 25.3.5.8 Ulpiano indicava con l’espressione summatim cognoscere l’indagine sullo status dei contendenti effettuata dal giudice alimentare con l’esclusiva funzione di rendere possibile una rapida decisione sugli alimenti. Questo accertamento, per l’esigenza cui assolveva, non era approfondito come quello che si realizzava nel sistema dell’ordo con praeiudicium. Esso conduceva a decisioni non solo definitive ma anche positive sullo status. La pronuntiatio del iudex privatus stabiliva una volta per tutte la posizione giuridica di un soggetto, con effetti erga omnes. Il decreto alimentare emanato sulla base della summaria cognitio di D. 25.3.5.8, invece, praeiudicium non facit veritati. La «verità» che il decreto alimentare non pregiudica è dunque quella relativa allo status di padre o di figlio che può definitivamente stabilirsi con l’apposito mezzo edittale del praeiudicium. Solo la decisione pronunziata in seguito alla proposizione di esso ha effetti non solo preclusivi ma anche positivi; solo questa e non anche quella incidentalmente decisa ai fini alimentari facit ius sullo stato personale, e, si può aggiungere, ricorrendo a un’espressione impiegata altrove dallo stesso Ulpiano, pro veritate accipitur. Raccolta tra le regulae iuris in D. 50.17.207 dai compilatori che la generalizzarono, questa nota massima è riferita dal giurista severiano proprio al valore di una sentenza in materia di status: essa “tiene luogo” della verità. È sempre escerpito dal commento ulpianeo alla legge Iulia e Papia, ma dal quarto libro, D. 1.6.10, L. 1998: Si iudex nutriri vel ali oportere pronuntiaverit, dicendum est de veritate quaerendum, filius sit an non: neque enim alimentorum causa veritati facit praeiudicium. Alla luce dei brani esaminati, D. 25.3.5.9 assume un significato preciso: la decisione del giudizio alimentare non preclude alle parti in causa di agire in via ordinaria per la verifica del vincolo. La «verità» che essa non pregiudica è quella che può essere sancita giudizialmente in sede appropriata. Quando la procreazione legittima è contestata, per quanto le circostanze di fatto addotte sul piano probatorio siano determinanti per definire la questione, è il iudex a stabilirla. In un campo delicato e incerto come quello della filiazione la veritas non può che essere la «verità giuridica» della sentenza; coincida essa con lo stato delle cose o no, placet enim eius rei iudicem ius facere. La stretta connessione tra obbligo alimentare e rapporto personale dei contendenti apre uno spiraglio anche per formulare un’ipotesi in merito all’individuazione del giudice competente per le cause alimentari, denotato sempre con il generico iudex e comunemente identificato con il console solo in base alla provenienza di D. 25.3.5, il De officio consulis di Ulpiano. Non è da dubitare che i consoli si occupassero in età severiana delle questioni alimentari; tuttavia nelle fonti non risulta che una competenza in materia gli fosse stata attribuita specialiter; c’è da chiedersi allora se, almeno con riguardo alle cause alimentari tra genitori e figli, essi siano sempre stati competenti e se lo fossero in via esclusiva. Una risposta potrebbe rintracciarsi nella storia stessa dell’istituto alimentare, un istituto che non si affermò in una volta ma per gradi e con mezzi diversi. Tra questi ultimi ebbero un ruolo significativo le procedure straordinarie de partu agnoscendo di cui si ha notizia nei titoli III e IV del venticinquesimo libro del Digesto, non a caso sussunti dai compilatori giustinianei sotto la medesima rubrica di D. 25.3.5, e rivenienti dai provvedimenti noti come Sc.ta de liberis agnoscendis. In particolare, il primo di essi in ordine di tempo, quello noto come Sc. Planciano, introdusse nell’ordinamento una particolare procedura per il riconoscimento dei figli nati dopo lo scioglimento del matrimonio. Essa si presenta come straordinaria rispetto all’ordinario giudizio di stato contemplato nell’editto. L’attenta lettura congiunta di D. 25.3 e 25.4 induce ad ipotizzare che competente per la procedura ex Sc.tis fosse il pretore formulare. Le stesse fonti testimoniano altresì un’intensa riflessione giurisprudenziale su Sc.ta de liberis agnoscendis diretta ad armonizzare la procedura di riconoscimento introdotta da questi ultimi, con il mezzo edittale ordinario del praeiudicium e, soprattutto, insieme con gli interventi degli imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, ad enfatizzarne la funzione alimentare. Obiettivo della ricerca è quello di dimostrare che, introdotte al fine di garantire la certezza dei rapporti di filiazione, tali procedure finirono sotto la spinta della riflessione giurisprudenziale e di interventi imperiali, con l’assicurare anche gli obblighi alimentari del padre nei confronti dei figli.

Giudizio alimentare e accertamento della filiazione

DE FRANCESCO, Anna
2002-01-01

Abstract

L’obbligo alimentare tra genitori e figli, tutelato dalla metà del secondo secolo in via straordinaria, trova organica disciplina in D. 25.3.5 pr.-17, L. 2063 che, sotto la rubrica De agnoscendis et alendis liberis vel parentibus vel patronis vel libertis, raccoglie un lungo frammento escerpito dal secondo libro De officio consulis di Ulpiano. Questa testimonianza viene assunta quale punto di partenza per un’analisi di alcuni profili del giudizio alimentare. Da una prima lettura del testo, si apprende che un non meglio identificato iudex decideva se e in che misura andavano prestati gli alimenti, tenendo conto delle condizioni patrimoniali dei soggetti e valutando se vi fossero ragioni che giustificassero il rifiuto di corrispondere gli alimenti. L’obbligo alimentare discendeva dal rapporto di filiazione tra le parti in causa. Se il convenuto sosteneva di non dover alimentare, negando di essere figlio o padre dell’alimentando, lo stesso giudice competente per il procedimento alimentare doveva summatim cognoscere della questione. Il giudice alimentare valutava, cioè, sulla base delle prove più facilmente acquisibili o forse anche in base alla sola attendibilità delle dichiarazioni delle parti, se decretare o meno gli alimenti. Questa interpretazione discende dall’ipotesi, sostenuta nel saggio, della genuinità della locuzione summatim cognoscere. Se dall’esame esame sommario del giudice alimentare fosse risultato il rapporto di filiazione tra le parti, il giudice avrebbe decretato gli alimenti. Ma come si legge in D. 25.3.5.9, la decisione del giudizio alimentare in questo caso, afferma Ulpiano, praeiudicium non facit veritati: l’imperatore Marco Aurelio aveva chiarito che con essa si stabiliva solo l’obbligo di corrispondere gli alimenti e non la qualità di figlio. Come come interpretare il termine veritas? In D. 25.3.5.8 Ulpiano indicava con l’espressione summatim cognoscere l’indagine sullo status dei contendenti effettuata dal giudice alimentare con l’esclusiva funzione di rendere possibile una rapida decisione sugli alimenti. Questo accertamento, per l’esigenza cui assolveva, non era approfondito come quello che si realizzava nel sistema dell’ordo con praeiudicium. Esso conduceva a decisioni non solo definitive ma anche positive sullo status. La pronuntiatio del iudex privatus stabiliva una volta per tutte la posizione giuridica di un soggetto, con effetti erga omnes. Il decreto alimentare emanato sulla base della summaria cognitio di D. 25.3.5.8, invece, praeiudicium non facit veritati. La «verità» che il decreto alimentare non pregiudica è dunque quella relativa allo status di padre o di figlio che può definitivamente stabilirsi con l’apposito mezzo edittale del praeiudicium. Solo la decisione pronunziata in seguito alla proposizione di esso ha effetti non solo preclusivi ma anche positivi; solo questa e non anche quella incidentalmente decisa ai fini alimentari facit ius sullo stato personale, e, si può aggiungere, ricorrendo a un’espressione impiegata altrove dallo stesso Ulpiano, pro veritate accipitur. Raccolta tra le regulae iuris in D. 50.17.207 dai compilatori che la generalizzarono, questa nota massima è riferita dal giurista severiano proprio al valore di una sentenza in materia di status: essa “tiene luogo” della verità. È sempre escerpito dal commento ulpianeo alla legge Iulia e Papia, ma dal quarto libro, D. 1.6.10, L. 1998: Si iudex nutriri vel ali oportere pronuntiaverit, dicendum est de veritate quaerendum, filius sit an non: neque enim alimentorum causa veritati facit praeiudicium. Alla luce dei brani esaminati, D. 25.3.5.9 assume un significato preciso: la decisione del giudizio alimentare non preclude alle parti in causa di agire in via ordinaria per la verifica del vincolo. La «verità» che essa non pregiudica è quella che può essere sancita giudizialmente in sede appropriata. Quando la procreazione legittima è contestata, per quanto le circostanze di fatto addotte sul piano probatorio siano determinanti per definire la questione, è il iudex a stabilirla. In un campo delicato e incerto come quello della filiazione la veritas non può che essere la «verità giuridica» della sentenza; coincida essa con lo stato delle cose o no, placet enim eius rei iudicem ius facere. La stretta connessione tra obbligo alimentare e rapporto personale dei contendenti apre uno spiraglio anche per formulare un’ipotesi in merito all’individuazione del giudice competente per le cause alimentari, denotato sempre con il generico iudex e comunemente identificato con il console solo in base alla provenienza di D. 25.3.5, il De officio consulis di Ulpiano. Non è da dubitare che i consoli si occupassero in età severiana delle questioni alimentari; tuttavia nelle fonti non risulta che una competenza in materia gli fosse stata attribuita specialiter; c’è da chiedersi allora se, almeno con riguardo alle cause alimentari tra genitori e figli, essi siano sempre stati competenti e se lo fossero in via esclusiva. Una risposta potrebbe rintracciarsi nella storia stessa dell’istituto alimentare, un istituto che non si affermò in una volta ma per gradi e con mezzi diversi. Tra questi ultimi ebbero un ruolo significativo le procedure straordinarie de partu agnoscendo di cui si ha notizia nei titoli III e IV del venticinquesimo libro del Digesto, non a caso sussunti dai compilatori giustinianei sotto la medesima rubrica di D. 25.3.5, e rivenienti dai provvedimenti noti come Sc.ta de liberis agnoscendis. In particolare, il primo di essi in ordine di tempo, quello noto come Sc. Planciano, introdusse nell’ordinamento una particolare procedura per il riconoscimento dei figli nati dopo lo scioglimento del matrimonio. Essa si presenta come straordinaria rispetto all’ordinario giudizio di stato contemplato nell’editto. L’attenta lettura congiunta di D. 25.3 e 25.4 induce ad ipotizzare che competente per la procedura ex Sc.tis fosse il pretore formulare. Le stesse fonti testimoniano altresì un’intensa riflessione giurisprudenziale su Sc.ta de liberis agnoscendis diretta ad armonizzare la procedura di riconoscimento introdotta da questi ultimi, con il mezzo edittale ordinario del praeiudicium e, soprattutto, insieme con gli interventi degli imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, ad enfatizzarne la funzione alimentare. Obiettivo della ricerca è quello di dimostrare che, introdotte al fine di garantire la certezza dei rapporti di filiazione, tali procedure finirono sotto la spinta della riflessione giurisprudenziale e di interventi imperiali, con l’assicurare anche gli obblighi alimentari del padre nei confronti dei figli.
2002
88-88321-50-0
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