Il successo della Repubblica di Genova è stato misurato dagli storici sulla base dei fasti commerciali e finanziari che nel corso dei secoli hanno garantito la sua prosperità in equilibrio tra le sfere di influenza francese e spagnola. Una potenza paradossale per più motivi: 1) perché dotata di una proiezione globale, ma sostanzialmente priva di un vero territorio, a eccezione di quegli imbelli Domini costellati di ville e giardini che il cartografo Matteo Vinzoni illustrò alla metà del Settecento con dovizia di particolari; 2) perché dotata di un sistema di potere contrario alla monarchia, ma cresciuto grazie ad una aristocrazia di mercanti abbastanza scaltri da nominare la Madonna regina della città (1637) e, contemporaneamente, da ricercare nel meridione regnicolo una legittimazione neo-feudale; 3) perché titolare di un rapporto con la Curia romana cementato sì da papi e cardinali spesso di origine ligure, ma non sufficiente ad arginare la furia del visitatore apostolico Francesco Bossio contro dimore talmente ricche da rischiare di «oltrepassare la christiana modestia» (1582). E’ in questa complessa e contraddittoria politia che si crearono le condizioni per un gran numero di iniziative legate all’arte e all’architettura che, comunque, non bastarono a far sì che chiunque vivesse a Genova fosse prospero e felice: le case non erano tutte simili alle dimore disegnate da Galeazzo Alessi e poi ‘propagandate’ da Pietro Paolo Rubens! La cifra di quanto la povertà fosse diffusa anche a Genova è data dall’enorme cubatura dell’Albergo dei Poveri che le classi agiate fecero costruire (1652-’56) essenzialmente per togliere (e togliersi) di torno gli inopportuni mendicanti assiepati davanti alle eleganti abitazioni affacciate sulle Strade Nuove o concentrate nelle riservatissime ‘curie’; dimore oggetto di un quarto paradosso, quello identificato dal pittore-diplomatico fiammingo al servizio dei Gonzaga che ebbe a scrivere di residenze di «gentiluomini» (va ricordato, al governo di una Repubblica), paragonabili per splendore a palazzi di principi «assoluti», a capo di una Monarchia. Il ‘caso Genova’ è intrigante perché tutte le componenti appena ricordate hanno contribuito ad alimentarne il mito. In questo volume non si è inteso stabilire se si tratta di un mito vero o falso, ma capire - principalmente attraverso una rosa di inventari scelti per esemplarità - come questi aspetti abbiano impattato sulla vita di alcuni casati, i Sauli, i Brignole-Sale, i Pallavicini, i Grillo, i Centurione. Uno spoglio filologico che, unito a quello condotto su numerosi altri documenti, è servito a porre in risalto la grande varietà di caratteri, destinazioni e beni che una dimora genovese poteva vantare, la funzione degli oggetti d’arte nella vita del clan o, per dirla con le parole di Marta Ajmar, «the cultural significance of things». A tal proposito, non esiste una risposta univoca. La ricerca ha provato a trovare una strada attraverso la cultura materiale e visuale della casa genovese tra Sei e Settecento intesa come strumento di interpolazione tra immagine pubblica e privata. L’ambiente domestico, e al suo interno la famiglia che viveva circondata da determinati mobili, da determinati quadri e da determinati apparati decorativi (spesso decisi in piena coerenza con le scelte sperimentate all’esterno di quelle mura, nelle cappelle e nelle chiese gentilizie), dimostra una consapevolezza di marca europea pari o addirittura superiore ai risultati economici. Ricchezza e immagine, articolazione e identità della famiglia, tipi autoctoni delle pratiche decorative e degli stili artistici e architettonici, modelli di acquisizione degli oggetti, attributi dell’aristocratico lifestyle genovese, sono tutti elementi che si intersecano tra loro, con l’obiettivo di fornire una lettura ‘altra’ rispetto a quella, celebre, di Francis Haskell, il quale, nel grande affresco dedicato a Roma e a Venezia durante l’età barocca, aveva confinato l’episodio ‘Genova’ nel riduttivo contesto della cosiddetta «scena provinciale» dell’arte e della società italiane. I palazzi di Genova riflettono un dialogo fra la ‘tradizione’ incarnata dall’estetica medievale del centro storico e l’innovazione dei modelli ‘post-moderni’ alessiani, poi rivoluzionata ancora dai rivolgimenti barocchi ammirati dai testimoni che passarono per la città, da Furttenbach ai viaggiatori del Grand Tour. In queste architetture maturò il profilo dell’esagerata genoese way of life che neanche le leggi suntuarie riuscirono a contenere: lo attestano quei ritratti di Rubens e di Van Dyck che, come ha notato Giorgio Doria, mostrano contabili issati su cavalli rampanti e mogli di prestatori di denaro che ambivano al rango di principessa (un quinto paradosso?). Gli spazi domestici genovesi giocarono in tal modo molti ruoli: luoghi di ricevimento, teatri di celebrazione e agiografia; soprattutto furono una manifestazione di gusto e di valore, non solo per i membri dell’upper class che ebbero la fortuna di vivere in queste dimore, ma anche per un’intera società sempre in bilico tra magnificentia e mediocritas, tra originalità ed emulazione. Alla luce di quanto detto, il volume è stato organizzato in due parti, articolate in sei capitoli e sette appendici documentarie. Il primo capitolo è dedicato all’analisi delle fonti, le voci dei contemporanei, che hanno contribuito a creare il ‘mito’ delle dimore genovesi [I]. Segue la presentazione di alcune delle diverse modalità di declinare e intendere la ‘vita privata’ di questa aristocrazia affacciata sul mondo: l’approccio dinastico al mecenatismo, con la diacronica saga dei Sauli impegnati sul doppio e intercambiabile registro della domus magna in San Genesio e della basilica alessiana di Carignano, entrambe trasformate in ‘oggetti barocchi’ internazionali con il contributo di artisti come Claudio David, Domenico Piola, Pierre Puget, Massimiliano Soldani Benzi, Diego Francesco Carlone, Francesco Maria Schiaffino; nel mezzo, il rapporto epistolare con molti di questi personaggi e il ruolo giocato in qualità di intermediari nella circostanza di complicate triangolazioni, come quella che nel 1641 vide protagonisti Gio Battista Manzini, Gio Antonio Sauli e Anton Giulio Brignole-Sale intorno a dieci quadri di Guido Reni [II]. I capitoli successivi proseguono indagando altri temi: la personalizzazione degli spazi abitativi, con l’esempio di tre ‘case’ volute, rispettivamente, da un cardinale (Vincenzo Giustiniani-Banca), uno storiografo (Raffaele Soprani) e un pittore-intellettuale (Gio Battista Paggi) [III]; la ‘macchina’ abitativa, con lo ‘smontaggio’ di una complessa dimora del Seicento come Palazzo Rosso, residenza dei Brignole-Sale [IV]; la via notarile alle ‘grande decorazione’, con alcuni scritti contenenti le premesse culturali e iconografiche di due importanti cicli affrescati da Domenico Parodi per Paolo Gerolamo III Pallavicini e Gio Francesco III Brignole-Sale [V]; il rischio di dispersione dei patrimoni raccolti, con le pratiche di vendita all’incanto e con le dispute testamentarie che segnarono le famiglie Grillo e Centurione [VI]. La seconda parte del libro, invece, propone le ricordate appendici archivistiche, sei delle quali organizzate per unità parentali: ciascuna di esse è introdotta da un sintetico profilo focalizzato sulla posizione del casato nella geografia del potere cittadino e sul suo atteggiamento in termini di supporto alle iniziative di committenza. La settima e ultima appendice raccoglie, infine, cinque brani sul tema della residenza genovese che il mondo della colta erudizione di primo Novecento dedicò all’argomento, sulla scia degli studi avviati da Luigi Tommaso Belgrano con il saggio Della vita privata dei genovesi (1866). ITALIANO

'DELLA VITA PRIVATA DEI GENOVESI' TRA SEI E SETTECENTO. LO SPAZIO DOMESTICO NELLA REPUBBLICA DI GENOVA E LA SUA PROIEZIONE EUROPEA, Università degli Studi di Verona, Tesi di Dottorato in 'Beni Culturali e Territorio', XXIII ciclo, tutor Prof. Bernard Aikema

Leonardi, Andrea
2011-01-01

Abstract

Il successo della Repubblica di Genova è stato misurato dagli storici sulla base dei fasti commerciali e finanziari che nel corso dei secoli hanno garantito la sua prosperità in equilibrio tra le sfere di influenza francese e spagnola. Una potenza paradossale per più motivi: 1) perché dotata di una proiezione globale, ma sostanzialmente priva di un vero territorio, a eccezione di quegli imbelli Domini costellati di ville e giardini che il cartografo Matteo Vinzoni illustrò alla metà del Settecento con dovizia di particolari; 2) perché dotata di un sistema di potere contrario alla monarchia, ma cresciuto grazie ad una aristocrazia di mercanti abbastanza scaltri da nominare la Madonna regina della città (1637) e, contemporaneamente, da ricercare nel meridione regnicolo una legittimazione neo-feudale; 3) perché titolare di un rapporto con la Curia romana cementato sì da papi e cardinali spesso di origine ligure, ma non sufficiente ad arginare la furia del visitatore apostolico Francesco Bossio contro dimore talmente ricche da rischiare di «oltrepassare la christiana modestia» (1582). E’ in questa complessa e contraddittoria politia che si crearono le condizioni per un gran numero di iniziative legate all’arte e all’architettura che, comunque, non bastarono a far sì che chiunque vivesse a Genova fosse prospero e felice: le case non erano tutte simili alle dimore disegnate da Galeazzo Alessi e poi ‘propagandate’ da Pietro Paolo Rubens! La cifra di quanto la povertà fosse diffusa anche a Genova è data dall’enorme cubatura dell’Albergo dei Poveri che le classi agiate fecero costruire (1652-’56) essenzialmente per togliere (e togliersi) di torno gli inopportuni mendicanti assiepati davanti alle eleganti abitazioni affacciate sulle Strade Nuove o concentrate nelle riservatissime ‘curie’; dimore oggetto di un quarto paradosso, quello identificato dal pittore-diplomatico fiammingo al servizio dei Gonzaga che ebbe a scrivere di residenze di «gentiluomini» (va ricordato, al governo di una Repubblica), paragonabili per splendore a palazzi di principi «assoluti», a capo di una Monarchia. Il ‘caso Genova’ è intrigante perché tutte le componenti appena ricordate hanno contribuito ad alimentarne il mito. In questo volume non si è inteso stabilire se si tratta di un mito vero o falso, ma capire - principalmente attraverso una rosa di inventari scelti per esemplarità - come questi aspetti abbiano impattato sulla vita di alcuni casati, i Sauli, i Brignole-Sale, i Pallavicini, i Grillo, i Centurione. Uno spoglio filologico che, unito a quello condotto su numerosi altri documenti, è servito a porre in risalto la grande varietà di caratteri, destinazioni e beni che una dimora genovese poteva vantare, la funzione degli oggetti d’arte nella vita del clan o, per dirla con le parole di Marta Ajmar, «the cultural significance of things». A tal proposito, non esiste una risposta univoca. La ricerca ha provato a trovare una strada attraverso la cultura materiale e visuale della casa genovese tra Sei e Settecento intesa come strumento di interpolazione tra immagine pubblica e privata. L’ambiente domestico, e al suo interno la famiglia che viveva circondata da determinati mobili, da determinati quadri e da determinati apparati decorativi (spesso decisi in piena coerenza con le scelte sperimentate all’esterno di quelle mura, nelle cappelle e nelle chiese gentilizie), dimostra una consapevolezza di marca europea pari o addirittura superiore ai risultati economici. Ricchezza e immagine, articolazione e identità della famiglia, tipi autoctoni delle pratiche decorative e degli stili artistici e architettonici, modelli di acquisizione degli oggetti, attributi dell’aristocratico lifestyle genovese, sono tutti elementi che si intersecano tra loro, con l’obiettivo di fornire una lettura ‘altra’ rispetto a quella, celebre, di Francis Haskell, il quale, nel grande affresco dedicato a Roma e a Venezia durante l’età barocca, aveva confinato l’episodio ‘Genova’ nel riduttivo contesto della cosiddetta «scena provinciale» dell’arte e della società italiane. I palazzi di Genova riflettono un dialogo fra la ‘tradizione’ incarnata dall’estetica medievale del centro storico e l’innovazione dei modelli ‘post-moderni’ alessiani, poi rivoluzionata ancora dai rivolgimenti barocchi ammirati dai testimoni che passarono per la città, da Furttenbach ai viaggiatori del Grand Tour. In queste architetture maturò il profilo dell’esagerata genoese way of life che neanche le leggi suntuarie riuscirono a contenere: lo attestano quei ritratti di Rubens e di Van Dyck che, come ha notato Giorgio Doria, mostrano contabili issati su cavalli rampanti e mogli di prestatori di denaro che ambivano al rango di principessa (un quinto paradosso?). Gli spazi domestici genovesi giocarono in tal modo molti ruoli: luoghi di ricevimento, teatri di celebrazione e agiografia; soprattutto furono una manifestazione di gusto e di valore, non solo per i membri dell’upper class che ebbero la fortuna di vivere in queste dimore, ma anche per un’intera società sempre in bilico tra magnificentia e mediocritas, tra originalità ed emulazione. Alla luce di quanto detto, il volume è stato organizzato in due parti, articolate in sei capitoli e sette appendici documentarie. Il primo capitolo è dedicato all’analisi delle fonti, le voci dei contemporanei, che hanno contribuito a creare il ‘mito’ delle dimore genovesi [I]. Segue la presentazione di alcune delle diverse modalità di declinare e intendere la ‘vita privata’ di questa aristocrazia affacciata sul mondo: l’approccio dinastico al mecenatismo, con la diacronica saga dei Sauli impegnati sul doppio e intercambiabile registro della domus magna in San Genesio e della basilica alessiana di Carignano, entrambe trasformate in ‘oggetti barocchi’ internazionali con il contributo di artisti come Claudio David, Domenico Piola, Pierre Puget, Massimiliano Soldani Benzi, Diego Francesco Carlone, Francesco Maria Schiaffino; nel mezzo, il rapporto epistolare con molti di questi personaggi e il ruolo giocato in qualità di intermediari nella circostanza di complicate triangolazioni, come quella che nel 1641 vide protagonisti Gio Battista Manzini, Gio Antonio Sauli e Anton Giulio Brignole-Sale intorno a dieci quadri di Guido Reni [II]. I capitoli successivi proseguono indagando altri temi: la personalizzazione degli spazi abitativi, con l’esempio di tre ‘case’ volute, rispettivamente, da un cardinale (Vincenzo Giustiniani-Banca), uno storiografo (Raffaele Soprani) e un pittore-intellettuale (Gio Battista Paggi) [III]; la ‘macchina’ abitativa, con lo ‘smontaggio’ di una complessa dimora del Seicento come Palazzo Rosso, residenza dei Brignole-Sale [IV]; la via notarile alle ‘grande decorazione’, con alcuni scritti contenenti le premesse culturali e iconografiche di due importanti cicli affrescati da Domenico Parodi per Paolo Gerolamo III Pallavicini e Gio Francesco III Brignole-Sale [V]; il rischio di dispersione dei patrimoni raccolti, con le pratiche di vendita all’incanto e con le dispute testamentarie che segnarono le famiglie Grillo e Centurione [VI]. La seconda parte del libro, invece, propone le ricordate appendici archivistiche, sei delle quali organizzate per unità parentali: ciascuna di esse è introdotta da un sintetico profilo focalizzato sulla posizione del casato nella geografia del potere cittadino e sul suo atteggiamento in termini di supporto alle iniziative di committenza. La settima e ultima appendice raccoglie, infine, cinque brani sul tema della residenza genovese che il mondo della colta erudizione di primo Novecento dedicò all’argomento, sulla scia degli studi avviati da Luigi Tommaso Belgrano con il saggio Della vita privata dei genovesi (1866). ITALIANO
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