L’esigenza di integrare la parola scritta – sia essa poetica, narrativa, saggistica – attraverso i codici pragmatici e storico-esistenziali dell’azione nasca in Pasolini con l’interessamento alla semiologia e alla linguistica implicato dall’esperienza cinematografica. Se ne possono in realtà riconoscere i prodromi già nel 1960, quando il poeta - nella rubrica tenuta su "Vie nuove", intitolata "Le belle bandiere" - comincia a parlare di "integrazione figurale". Pasolini ricava questo concetto dalla nozione di matrice auerbachiana di «interpretazione figurale», afferente al dominio della teologia e definita dal filologo tedesco come una «connessione fra due avvenimenti o due personaggi, nella quale […] uno dei due significa non solamente se stesso, ma anche l’altro, e il secondo invece include il primo o lo integra». Pasolini sembra filtrarla – come spesso fa con concetti e nozioni mutuati da altri – in un’accezione del tutto personale, che diverge non poco dalla formulazione di Auerbach. Attraverso uno dei suoi proverbiali, fecondi “fraintendimenti”, lo scrittore svincola l’idea dell’interpretazione figurale dal suo ambito originale, storico-esegetico, intendendola come un fattore extratestuale, di natura pragmatica, in grado di “catalizzare” l’opera, aggiungendovi una “plasticità”, una pienezza di senso, che la realizza, la compie.
Scrivere con il corpo. Il “teatro” di Pasolini tra “integrazione figurale” e performatività
Gianpaolo Altamura
2025-01-01
Abstract
L’esigenza di integrare la parola scritta – sia essa poetica, narrativa, saggistica – attraverso i codici pragmatici e storico-esistenziali dell’azione nasca in Pasolini con l’interessamento alla semiologia e alla linguistica implicato dall’esperienza cinematografica. Se ne possono in realtà riconoscere i prodromi già nel 1960, quando il poeta - nella rubrica tenuta su "Vie nuove", intitolata "Le belle bandiere" - comincia a parlare di "integrazione figurale". Pasolini ricava questo concetto dalla nozione di matrice auerbachiana di «interpretazione figurale», afferente al dominio della teologia e definita dal filologo tedesco come una «connessione fra due avvenimenti o due personaggi, nella quale […] uno dei due significa non solamente se stesso, ma anche l’altro, e il secondo invece include il primo o lo integra». Pasolini sembra filtrarla – come spesso fa con concetti e nozioni mutuati da altri – in un’accezione del tutto personale, che diverge non poco dalla formulazione di Auerbach. Attraverso uno dei suoi proverbiali, fecondi “fraintendimenti”, lo scrittore svincola l’idea dell’interpretazione figurale dal suo ambito originale, storico-esegetico, intendendola come un fattore extratestuale, di natura pragmatica, in grado di “catalizzare” l’opera, aggiungendovi una “plasticità”, una pienezza di senso, che la realizza, la compie.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


