Il saggio ha ad oggetto l’analisi della funzione del divieto di atti discriminatori di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, al fine di verificare l’attualità della previsione normativa (profondamente innovata nel corso del tempo), anche alla luce dei valori “vecchi e nuovi” ad essa sottesi. La disciplina dei divieti di discriminazione è, infatti, caratterizzata dalla “storicità” e dalla “contingenza” oltreché dai mutevoli contesti sociali e culturali che hanno fatto da sfondo alla produzione normativa antidiscriminatoria, profondamente condizionata anche dal diritto dell’Unione Europea. Storicità e contingenza dei fattori di protezione ravvisabile anche nella formulazione del primo divieto di discriminazione introdotto proprio nello Statuto dei lavoratori e considerato il “prototipo” della tutela antidiscriminatoria. La disposizione statutaria, nella sua originaria formulazione, sancendo la nullità di «qualsiasi patto od atto» datoriale, incidente sul rapporto di lavoro, che fosse discriminatorio per motivi sindacali, religiosi o politici, rappresentava la necessità del legislatore di assicurare in quel determinato contesto storico il libero esercizio dell’attività sindacale e la libera manifestazione delle opinioni politiche e religiose. Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, si è avviato un lento, ma significativo, processo di “espansione” del diritto antidiscriminatorio europeo e nazionale, che si è aperto a nuovi valori e che ha gradualmente allargato il suo raggio di tutela (dapprima con la legge n. 903/1977 attraverso la previsione di “nuovi” fattori di rischio legati a caratteristiche dell’identità soggettiva della persona quali il sesso, la razza e la lingua, successivamente con il d.lgs. n. 216/2003 con la previsione di ulteriori fattori di rischio, quali l’handicap, l’età e l’orientamento sessuale). Con specifico riferimento al modello statutario di relazioni sindacali, inoltre, l’analisi consentirà di verificare se il “fattore sindacale” conservi una sua specificità rispetto alle diversificate e più recenti tipologie di discriminazione. La riflessione vuole proprio indagare, nel prisma dell’art. 15, la funzione oggi, anche in un’ottica prospettica, del divieto di atti discriminatori e del più generale principio di non discriminazione, specie alla luce dei più recenti modelli di regolazione lavoristica. In particolare, si intende far riferimento al “declino” dell’inderogabilità cui sembra corrispondere il ridimensionamento assiologico del principio di eguaglianza, che ha inciso sui paradigmi strutturali del diritto del lavoro. In questo scenario, sempre più caratterizzato da un affievolimento delle tutele sostanziali, la tecnica legislativa dei divieti di discriminazione e le connesse tutele processuali “speciali”, tradizionalmente residuali e accessorie in ambito lavoristico, hanno finito per assumere una centralità cruciale che merita di essere indagata.
Il principio di non discriminazione nello Statuto dei lavoratori
donato marino
2022-01-01
Abstract
Il saggio ha ad oggetto l’analisi della funzione del divieto di atti discriminatori di cui all’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, al fine di verificare l’attualità della previsione normativa (profondamente innovata nel corso del tempo), anche alla luce dei valori “vecchi e nuovi” ad essa sottesi. La disciplina dei divieti di discriminazione è, infatti, caratterizzata dalla “storicità” e dalla “contingenza” oltreché dai mutevoli contesti sociali e culturali che hanno fatto da sfondo alla produzione normativa antidiscriminatoria, profondamente condizionata anche dal diritto dell’Unione Europea. Storicità e contingenza dei fattori di protezione ravvisabile anche nella formulazione del primo divieto di discriminazione introdotto proprio nello Statuto dei lavoratori e considerato il “prototipo” della tutela antidiscriminatoria. La disposizione statutaria, nella sua originaria formulazione, sancendo la nullità di «qualsiasi patto od atto» datoriale, incidente sul rapporto di lavoro, che fosse discriminatorio per motivi sindacali, religiosi o politici, rappresentava la necessità del legislatore di assicurare in quel determinato contesto storico il libero esercizio dell’attività sindacale e la libera manifestazione delle opinioni politiche e religiose. Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, si è avviato un lento, ma significativo, processo di “espansione” del diritto antidiscriminatorio europeo e nazionale, che si è aperto a nuovi valori e che ha gradualmente allargato il suo raggio di tutela (dapprima con la legge n. 903/1977 attraverso la previsione di “nuovi” fattori di rischio legati a caratteristiche dell’identità soggettiva della persona quali il sesso, la razza e la lingua, successivamente con il d.lgs. n. 216/2003 con la previsione di ulteriori fattori di rischio, quali l’handicap, l’età e l’orientamento sessuale). Con specifico riferimento al modello statutario di relazioni sindacali, inoltre, l’analisi consentirà di verificare se il “fattore sindacale” conservi una sua specificità rispetto alle diversificate e più recenti tipologie di discriminazione. La riflessione vuole proprio indagare, nel prisma dell’art. 15, la funzione oggi, anche in un’ottica prospettica, del divieto di atti discriminatori e del più generale principio di non discriminazione, specie alla luce dei più recenti modelli di regolazione lavoristica. In particolare, si intende far riferimento al “declino” dell’inderogabilità cui sembra corrispondere il ridimensionamento assiologico del principio di eguaglianza, che ha inciso sui paradigmi strutturali del diritto del lavoro. In questo scenario, sempre più caratterizzato da un affievolimento delle tutele sostanziali, la tecnica legislativa dei divieti di discriminazione e le connesse tutele processuali “speciali”, tradizionalmente residuali e accessorie in ambito lavoristico, hanno finito per assumere una centralità cruciale che merita di essere indagata.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.