Il legame indissolubile tra magistrato del pubblico Ministero e azione penale informa sulle diverse funzioni che quest’ultimo riveste nelle diverse fasi processuali. Quale Dominus dell’azione, il pubblico ministero è l’organo preposto alla formulazione dell’imputazione, «quando non sussistono i presupposti per richiedere l’archiviazione» (art. 50 comma 1 c.p.p.). Su un piano similare, l’art. 405 c.p.p. dispone che «il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale». Tuttavia, la collocazione delle norme, segnala finalità differenti: L’art. 50 c.p.p., inserito nelle disposizioni relative ai soggetti, attiene all’indissolubile legame tra pubblico ministero e azione penale; l’art. 405 c.p.p. invece, relativo alla chiusura delle indagini preliminari, specifica le modalità di esercizio dell’azione. Sicché, per il pubblico ministero, la formulazione dell’imputazione rappresenta: a) la precondizione dell’adempimento di un dovere (obbligo); b) il frutto di una scelta (fra azione ed archiviazione). Su un piano diversificato, Il tema del controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale evidenzia il legame tra pubblico ministero ed azione, dal momento che ricorda la presenza di un giudice titolare di poteri istruttori che, anziché svolgere «un ruolo meramente passivo di spettatore», contribuisce alla formazione della regiudicanda. Senza dimenticare, però, che il brocardo latino ne procedat iudex ex officio, raffigura l’archetipo su cui si fondano i criteri del modello accusatorio, se è vero, che accusatorio dovrebbe essere il processo «caratterizzato dalla presenza di un apposito organo d’accusa distinto dall’organo giurisdizionale». Pertanto, nella modernità, sostenere che il processo penale rappresenti il giardino protetto delle garanzie dell’imputato, il luogo d’elezione del diritto di difesa nel contradditorio tra le parti, porta inevitabilmente a rinforzare l’idea che il controllo giurisdizionale debba essere finalizzato ad evitare gli abusi del processo e nel processo senza lasciarsi persuadere, o intimorire dalle ipotesi accusatorie. Del resto, la regola di non considerazione di colpevolezza non rappresenta soltanto una regola di giudizio, intesa come dovere per il giudice di assolvere l’imputato ove non sia possibile dimostrarne la colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, né semplicemente una regola di trattamento, quale divieto di esecuzione anticipata di una sanzione. È molto di più, è la stella polare del criterio di imparzialità. Solo così, il legame tra pubblico ministero ed esercizio dell’azione diventa costituzionalmente credibile e conciliabile con le disposizioni di cui agli artt. 27 comma 2 Cost., 101 comma poiché la non considerazione di colpevolezza rappresenta il criterio guida nel percorso legale di accertamento della verità processuale. Tali sono le ragioni per cui la formulazione dell’imputazione, in forma chiara e precisa secondo i parametri della Riforma Cartabia costituisce un obbligo per il pubblico ministero ed è sottoposto al vaglio del Giudice. Peraltro, restringe il campo di azione, l’ipotesi della regola di ragionevole previsione di condanna qualora, al termine delle indagini, non sussistano gli estremi per richiedere l’archiviazione. Sul punto, occorre evidenziare che diversamente dai sistemi processuali caratterizzati dalla discrezionalità, l’art. 112 Cost. appare essenziale nel qualificare come obbligatorio l’esercizio dell’azione penale. Sicché, non ci dovrebbero essere valutazioni di opportunità sul se, sul quomodo e sul quando dell’azione penale. Peraltro, la dottrina tradizionale genera il principio di obbligatorietà quale logico corollario dei principi di legalità (art. 25 comma 2 Cost.) e di uguaglianza, per esaltare il valore di un «elemento che concorre, da un lato, a garantire l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale». Tuttavia, le successive interpretazioni dottrinarie, probabilmente più realistiche sul de profundis dei valori ispiratori del codice del 1988, sono arrivate alla conclusione che il principio di obbligatorietà non sia altro che «una bugia convenzionale» supportata da disparate giustificazioni. Insomma, individuare i confini e la portata dell’obbligatorietà significa muoversi in un check balance di interessi costituzionalmente garantiti. Del resto, la lettura sistematica degli artt. 112, 25 e 97 Cost., dovrebbe indicare la strada maestra per l’interprete e indurlo a ritenere che l’azione penale si qualifichi come obbligatoria quando si connoti quantomeno di ragionevolezza, non traducendosi, di conseguenza, né in uno strumento di persecuzione, né in un dispendio insensato di lavoro e di energie per l’amministrazione della giustizia. Probabilmente, un’adeguata rivalutazione del principio di legalità farebbe riflettere sull’accezione più autorevole della regola: non quale esigenza di repressione di tutte le condotte criminose, ma baluardo della libertà individuale dei cittadini contro gli abusi dei pubblici poteri. Vi è da chiedersi, di conseguenza, se la genericità e l’indeterminatezza dell’imputazione possano essere considerati quali indicatori di un mancato rispetto della regola di legalità la cui violazione impone un serio controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale per perimetrare gli abusi nel processo. L’etica del dubbio, che coniuga forma ed essenza del processo penale ancor prima di qualsiasi Riforma legislativa, dovrebbe sottolineare che, nel mondo delle professioni giuridiche, ogni scelta che attenga alla libertà di una persona, non possa essere alimentata da logiche diverse della verità e, dunque, per tali ragioni occorre navigare attraverso percorsi cognitivi virtuosi, mediante il rispetto di regole procedurali che ripudiano superficialità e sregolatezza.

Verità e processo penale. Il controllo giurisdizionale sull' esercizio dell' azione penale

Garofoli Francesca Jole
2024-01-01

Abstract

Il legame indissolubile tra magistrato del pubblico Ministero e azione penale informa sulle diverse funzioni che quest’ultimo riveste nelle diverse fasi processuali. Quale Dominus dell’azione, il pubblico ministero è l’organo preposto alla formulazione dell’imputazione, «quando non sussistono i presupposti per richiedere l’archiviazione» (art. 50 comma 1 c.p.p.). Su un piano similare, l’art. 405 c.p.p. dispone che «il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale». Tuttavia, la collocazione delle norme, segnala finalità differenti: L’art. 50 c.p.p., inserito nelle disposizioni relative ai soggetti, attiene all’indissolubile legame tra pubblico ministero e azione penale; l’art. 405 c.p.p. invece, relativo alla chiusura delle indagini preliminari, specifica le modalità di esercizio dell’azione. Sicché, per il pubblico ministero, la formulazione dell’imputazione rappresenta: a) la precondizione dell’adempimento di un dovere (obbligo); b) il frutto di una scelta (fra azione ed archiviazione). Su un piano diversificato, Il tema del controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale evidenzia il legame tra pubblico ministero ed azione, dal momento che ricorda la presenza di un giudice titolare di poteri istruttori che, anziché svolgere «un ruolo meramente passivo di spettatore», contribuisce alla formazione della regiudicanda. Senza dimenticare, però, che il brocardo latino ne procedat iudex ex officio, raffigura l’archetipo su cui si fondano i criteri del modello accusatorio, se è vero, che accusatorio dovrebbe essere il processo «caratterizzato dalla presenza di un apposito organo d’accusa distinto dall’organo giurisdizionale». Pertanto, nella modernità, sostenere che il processo penale rappresenti il giardino protetto delle garanzie dell’imputato, il luogo d’elezione del diritto di difesa nel contradditorio tra le parti, porta inevitabilmente a rinforzare l’idea che il controllo giurisdizionale debba essere finalizzato ad evitare gli abusi del processo e nel processo senza lasciarsi persuadere, o intimorire dalle ipotesi accusatorie. Del resto, la regola di non considerazione di colpevolezza non rappresenta soltanto una regola di giudizio, intesa come dovere per il giudice di assolvere l’imputato ove non sia possibile dimostrarne la colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, né semplicemente una regola di trattamento, quale divieto di esecuzione anticipata di una sanzione. È molto di più, è la stella polare del criterio di imparzialità. Solo così, il legame tra pubblico ministero ed esercizio dell’azione diventa costituzionalmente credibile e conciliabile con le disposizioni di cui agli artt. 27 comma 2 Cost., 101 comma poiché la non considerazione di colpevolezza rappresenta il criterio guida nel percorso legale di accertamento della verità processuale. Tali sono le ragioni per cui la formulazione dell’imputazione, in forma chiara e precisa secondo i parametri della Riforma Cartabia costituisce un obbligo per il pubblico ministero ed è sottoposto al vaglio del Giudice. Peraltro, restringe il campo di azione, l’ipotesi della regola di ragionevole previsione di condanna qualora, al termine delle indagini, non sussistano gli estremi per richiedere l’archiviazione. Sul punto, occorre evidenziare che diversamente dai sistemi processuali caratterizzati dalla discrezionalità, l’art. 112 Cost. appare essenziale nel qualificare come obbligatorio l’esercizio dell’azione penale. Sicché, non ci dovrebbero essere valutazioni di opportunità sul se, sul quomodo e sul quando dell’azione penale. Peraltro, la dottrina tradizionale genera il principio di obbligatorietà quale logico corollario dei principi di legalità (art. 25 comma 2 Cost.) e di uguaglianza, per esaltare il valore di un «elemento che concorre, da un lato, a garantire l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale». Tuttavia, le successive interpretazioni dottrinarie, probabilmente più realistiche sul de profundis dei valori ispiratori del codice del 1988, sono arrivate alla conclusione che il principio di obbligatorietà non sia altro che «una bugia convenzionale» supportata da disparate giustificazioni. Insomma, individuare i confini e la portata dell’obbligatorietà significa muoversi in un check balance di interessi costituzionalmente garantiti. Del resto, la lettura sistematica degli artt. 112, 25 e 97 Cost., dovrebbe indicare la strada maestra per l’interprete e indurlo a ritenere che l’azione penale si qualifichi come obbligatoria quando si connoti quantomeno di ragionevolezza, non traducendosi, di conseguenza, né in uno strumento di persecuzione, né in un dispendio insensato di lavoro e di energie per l’amministrazione della giustizia. Probabilmente, un’adeguata rivalutazione del principio di legalità farebbe riflettere sull’accezione più autorevole della regola: non quale esigenza di repressione di tutte le condotte criminose, ma baluardo della libertà individuale dei cittadini contro gli abusi dei pubblici poteri. Vi è da chiedersi, di conseguenza, se la genericità e l’indeterminatezza dell’imputazione possano essere considerati quali indicatori di un mancato rispetto della regola di legalità la cui violazione impone un serio controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale per perimetrare gli abusi nel processo. L’etica del dubbio, che coniuga forma ed essenza del processo penale ancor prima di qualsiasi Riforma legislativa, dovrebbe sottolineare che, nel mondo delle professioni giuridiche, ogni scelta che attenga alla libertà di una persona, non possa essere alimentata da logiche diverse della verità e, dunque, per tali ragioni occorre navigare attraverso percorsi cognitivi virtuosi, mediante il rispetto di regole procedurali che ripudiano superficialità e sregolatezza.
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