Great Expectations (1861) di Charles Dickens offre l’esempio paradigmatico di un testo in cui lo spazio diventa struttura portante del discorso narrativo. Attorno al continuo gioco di contrapposizioni tra il tranquillo villaggio vicino alla paludosa foce del Tamigi e una Londra dissoluta e caotica, si addensa il senso ultimo e più profondo di un testo di non facile lettura, a dispetto dell’apparente semplicità: “puntiglioso contro-modello” del romanzo di formazione inglese, secondo Franco Moretti, ma soprattutto costruzione complessa che apre varie linee interpretative, pur mantenendo intatto il proprio equilibrio interno. Scritto in un momento di convulsa accelerazione dello sviluppo urbano, in cui la città diventa, nell’immaginario collettivo, l’espressione stessa del degrado e del caos, il romanzo è stato a lungo considerato l’espressione di una poetica che si piega alle istanze del ‘compromesso vittoriano’ e nel ritratto del progressivo degrado morale di Pip a Londra nasconde un attacco a quelle aspirazioni borghesi di money making e social climbing che l’establishment vittoriano non poteva non vedere come minaccia alla stabilità sociale. Sullo sfondo di tali considerazioni, l’intervento propone di leggere il percorso di formazione di Pip in chiave epistemologica, come evoluzione cioè dalla ingenua fiducia in un orizzonte interpretativo condivisibile, che il villaggio rurale per moli versi incarna, alla amara consapevolezza della irrimediabile opacità di una realtà sfuggente, magmatica, impenetrabile, colta attraverso un difficile e sempre provvisorio confronto tra più voci, prospettive molteplici e punti di vista discordi. Una visione della realtà di cui lo spazio urbano si offre come metafora. Poliedrica, prismatica, frantumata in una molteplicità di scorci che non consentono alcuna prospettiva d’insieme, la città è soprattutto uno spazio di “difficile decodifica”, un universo in cui nessuna ‘verità’ ha la garanzia di essere oggettiva, nessuna certezza di essere condivisibile, e dove tutto è finzione, artificio, messa in scena di sapore teatrale, in cui è sempre difficile distinguere tra la realtà e le sue mistificazioni. In questo senso la Londra di Great Expectations si fa ‘testo’, ovvero tessuto secondo l’etimologia latina, groviglio da dipanare, codice da decifrare, trama intricata da districare, fitta rete di macchinazioni e trappole, intessuta di false supposizioni, indizi ingannevoli e finte presenze protettrici. Un percorso labirintico nel quale è facile ‘perdersi’ e che per molti versi il lettore compie parallelamente, nell’attraversare un romanzo che, ci ricorda Pagetti, “non si costruisce come testo univoco e continua a produrre interpretazioni e movimenti scenici”, nella consapevolezza che “non esiste un viaggio definitivo, ma solo il viaggio della scrittura […] che si può attuare solo con un finale aperto e suscettibile, anche semanticamente, di interpretazioni differenti”.

Great Exhibitions, Great Expectations: illusioni e inganni nella Londra vittoriana

SQUEO, Maddalena Alessandra
2004-01-01

Abstract

Great Expectations (1861) di Charles Dickens offre l’esempio paradigmatico di un testo in cui lo spazio diventa struttura portante del discorso narrativo. Attorno al continuo gioco di contrapposizioni tra il tranquillo villaggio vicino alla paludosa foce del Tamigi e una Londra dissoluta e caotica, si addensa il senso ultimo e più profondo di un testo di non facile lettura, a dispetto dell’apparente semplicità: “puntiglioso contro-modello” del romanzo di formazione inglese, secondo Franco Moretti, ma soprattutto costruzione complessa che apre varie linee interpretative, pur mantenendo intatto il proprio equilibrio interno. Scritto in un momento di convulsa accelerazione dello sviluppo urbano, in cui la città diventa, nell’immaginario collettivo, l’espressione stessa del degrado e del caos, il romanzo è stato a lungo considerato l’espressione di una poetica che si piega alle istanze del ‘compromesso vittoriano’ e nel ritratto del progressivo degrado morale di Pip a Londra nasconde un attacco a quelle aspirazioni borghesi di money making e social climbing che l’establishment vittoriano non poteva non vedere come minaccia alla stabilità sociale. Sullo sfondo di tali considerazioni, l’intervento propone di leggere il percorso di formazione di Pip in chiave epistemologica, come evoluzione cioè dalla ingenua fiducia in un orizzonte interpretativo condivisibile, che il villaggio rurale per moli versi incarna, alla amara consapevolezza della irrimediabile opacità di una realtà sfuggente, magmatica, impenetrabile, colta attraverso un difficile e sempre provvisorio confronto tra più voci, prospettive molteplici e punti di vista discordi. Una visione della realtà di cui lo spazio urbano si offre come metafora. Poliedrica, prismatica, frantumata in una molteplicità di scorci che non consentono alcuna prospettiva d’insieme, la città è soprattutto uno spazio di “difficile decodifica”, un universo in cui nessuna ‘verità’ ha la garanzia di essere oggettiva, nessuna certezza di essere condivisibile, e dove tutto è finzione, artificio, messa in scena di sapore teatrale, in cui è sempre difficile distinguere tra la realtà e le sue mistificazioni. In questo senso la Londra di Great Expectations si fa ‘testo’, ovvero tessuto secondo l’etimologia latina, groviglio da dipanare, codice da decifrare, trama intricata da districare, fitta rete di macchinazioni e trappole, intessuta di false supposizioni, indizi ingannevoli e finte presenze protettrici. Un percorso labirintico nel quale è facile ‘perdersi’ e che per molti versi il lettore compie parallelamente, nell’attraversare un romanzo che, ci ricorda Pagetti, “non si costruisce come testo univoco e continua a produrre interpretazioni e movimenti scenici”, nella consapevolezza che “non esiste un viaggio definitivo, ma solo il viaggio della scrittura […] che si può attuare solo con un finale aperto e suscettibile, anche semanticamente, di interpretazioni differenti”.
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