Il saggio offre una panoramica d’insieme della ripresa del dibattito e dell’iniziativa meridionalista nel Mezzogiorno post-bellico. La struttura si articola in due paragrafi. La prima parte ripercorre i tratti generali del fenomeno: i diversi soggetti politici, amministrativi e associativi che lo animano; la dimensione geografica policentrica, le sedi e i canali che alimentano la diffusione e il confronto delle idee. In un quadro vivace e frammentato emergono come principali centri di aggregazione Napoli, Bari e Palermo, dove emergono tre figure di particolare rilievo: Stefano Brun, Isidoro Pirelli e Pietro Frasca Polara, profili e interpreti diversi delle istanze industrialiste. La vecchia capitale del Sud, Napoli, si distingue per la ricchezza della discussione e per il fermento di iniziative pubbliche (convegni, conferenze, iniziative editoriali e stampa). L’esperienza associativa più interessante della seconda metà degli anni Quaranta è il Centro economico italiano per il Mezzogiorno (Ceim), sorto per iniziativa comunista nel 1946 e per un anno e mezzo laboratorio di dialogo e collaborazione tra personalità di differenti competenze e orientamenti politici. Di grande importanza in quel periodo appare inoltre il ruolo di stimolo e di iniziativa pubblica avuto dalla galassia delle camere di commercio, grazie anche alle capacità organizzative e all’impegno profuso da Brun alla presidenza dell’ente camerale di Napoli e dell’Unione italiana delle camere di commercio (Unioncamere). Il secondo paragrafo ricostruisce alcune iniziative che, muovendo dalla periferia, precedono e accompagnano la lunga gestazione, tra il 1947 e il 1950, della prima legislazione repubblicana in materia di industria meridionale. L’esame si focalizza in particolare su due casi di studio che richiamano il tema della continuità durante la transizione post-bellica. Il primo è rappresentato dalla cosiddetta legge del Sesto (decreto n.40 del 18 febbraio 1947) con cui si autorizza la Pubblica amministrazione a riservare alle industrie meridionali un sesto (poco più del 15 per cento) delle commesse; il provvedimento riprende – ampliandola ed estendendola – una misura già contemplata nella legislazione speciale di inizio Novecento. All’indomani della guerra e negli anni della ricostruzione il provvedimento viene invocato da più parti nel Mezzogiorno perché considerato un mezzo per procurare alla disastrata industria meridionale una fonte di lavoro da parte dello Stato al riparo dall’impari competizione con le più agguerrite concorrenti del Nord Italia. Il secondo caso di studio riguarda la mobilitazione che all’inizio del 1947, a partire da un ordine del giorno della Camera di commercio di Teramo, si attiva in periferia per ottenere il ripristino della legge n.1572 del 1941 sul decentramento industriale nell’Italia centrale e meridionale, scaduta alla fine del 1946 senza essere mai applicata nel quinquennio in cui è rimasta in vigore. All’iniziativa, che diventa l’occasione per richiamare l’attenzione delle autorità centrali sull’industria meridionale, aderiscono tra l’inverno e l’estate del 1947 decine di camere di commercio, comuni e province, associazioni di categoria, deputati dell’Assemblea costituente. A livello governativo, dove in quei mesi si consuma la crisi dell’alleanza tra democristiani e socialcomunisti, la questione è presa in considerazione e diventa oggetto di un fitto scambio di opinioni tra i ministeri. Si decide di non accogliere la richiesta di ripristinare, sia pure con modifiche, la legge del 1941, optando invece per un pacchetto di misure creditizie e incentivazioni per l’industrializzazione meridionale conosciuto come decreti Togni Porzio (1947/48), destinato a rivelarsi problematico e poco incisivo. Il risultato finale appare modesto agli occhi di quei settori che, nella ripresa del meridionalismo, hanno sostenuto la necessità di iniziare senza indugi una robusta, articolata, politica per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno.

Il meridionalismo nel Mezzogiorno tra ricostruzione e industrializzazione (1945-1950)

Stefano Mangullo
2020-01-01

Abstract

Il saggio offre una panoramica d’insieme della ripresa del dibattito e dell’iniziativa meridionalista nel Mezzogiorno post-bellico. La struttura si articola in due paragrafi. La prima parte ripercorre i tratti generali del fenomeno: i diversi soggetti politici, amministrativi e associativi che lo animano; la dimensione geografica policentrica, le sedi e i canali che alimentano la diffusione e il confronto delle idee. In un quadro vivace e frammentato emergono come principali centri di aggregazione Napoli, Bari e Palermo, dove emergono tre figure di particolare rilievo: Stefano Brun, Isidoro Pirelli e Pietro Frasca Polara, profili e interpreti diversi delle istanze industrialiste. La vecchia capitale del Sud, Napoli, si distingue per la ricchezza della discussione e per il fermento di iniziative pubbliche (convegni, conferenze, iniziative editoriali e stampa). L’esperienza associativa più interessante della seconda metà degli anni Quaranta è il Centro economico italiano per il Mezzogiorno (Ceim), sorto per iniziativa comunista nel 1946 e per un anno e mezzo laboratorio di dialogo e collaborazione tra personalità di differenti competenze e orientamenti politici. Di grande importanza in quel periodo appare inoltre il ruolo di stimolo e di iniziativa pubblica avuto dalla galassia delle camere di commercio, grazie anche alle capacità organizzative e all’impegno profuso da Brun alla presidenza dell’ente camerale di Napoli e dell’Unione italiana delle camere di commercio (Unioncamere). Il secondo paragrafo ricostruisce alcune iniziative che, muovendo dalla periferia, precedono e accompagnano la lunga gestazione, tra il 1947 e il 1950, della prima legislazione repubblicana in materia di industria meridionale. L’esame si focalizza in particolare su due casi di studio che richiamano il tema della continuità durante la transizione post-bellica. Il primo è rappresentato dalla cosiddetta legge del Sesto (decreto n.40 del 18 febbraio 1947) con cui si autorizza la Pubblica amministrazione a riservare alle industrie meridionali un sesto (poco più del 15 per cento) delle commesse; il provvedimento riprende – ampliandola ed estendendola – una misura già contemplata nella legislazione speciale di inizio Novecento. All’indomani della guerra e negli anni della ricostruzione il provvedimento viene invocato da più parti nel Mezzogiorno perché considerato un mezzo per procurare alla disastrata industria meridionale una fonte di lavoro da parte dello Stato al riparo dall’impari competizione con le più agguerrite concorrenti del Nord Italia. Il secondo caso di studio riguarda la mobilitazione che all’inizio del 1947, a partire da un ordine del giorno della Camera di commercio di Teramo, si attiva in periferia per ottenere il ripristino della legge n.1572 del 1941 sul decentramento industriale nell’Italia centrale e meridionale, scaduta alla fine del 1946 senza essere mai applicata nel quinquennio in cui è rimasta in vigore. All’iniziativa, che diventa l’occasione per richiamare l’attenzione delle autorità centrali sull’industria meridionale, aderiscono tra l’inverno e l’estate del 1947 decine di camere di commercio, comuni e province, associazioni di categoria, deputati dell’Assemblea costituente. A livello governativo, dove in quei mesi si consuma la crisi dell’alleanza tra democristiani e socialcomunisti, la questione è presa in considerazione e diventa oggetto di un fitto scambio di opinioni tra i ministeri. Si decide di non accogliere la richiesta di ripristinare, sia pure con modifiche, la legge del 1941, optando invece per un pacchetto di misure creditizie e incentivazioni per l’industrializzazione meridionale conosciuto come decreti Togni Porzio (1947/48), destinato a rivelarsi problematico e poco incisivo. Il risultato finale appare modesto agli occhi di quei settori che, nella ripresa del meridionalismo, hanno sostenuto la necessità di iniziare senza indugi una robusta, articolata, politica per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno.
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