La disciplina delle mansioni nel settore pubblico è connotata da indubbi elementi di specialità rispetto al settore privato. La differente regolamentazione è figlia, oltre che dell’evoluzione storica, della permanente diversità dei principi che hanno ispirato l’intervento legislativo nei due settori: mentre nel lavoro alle dipendenze del datore di lavoro privato, i valori sottesi alla disciplina portano alla ricerca di un equilibrio tra pretesa del lavoratore di salvaguardare la propria professionalità e pretesa dell’impresa di disporre con la massima flessibilità della propria forza lavoro, nel settore pubblico l’indisponibilità degli interessi pubblici, che si ricollegano alla stabilità del ruolo organico ed alla certezza organizzativa, burocratica e finanziaria dell’amministrazione, hanno fatto sì che la materia si assestasse in un quadro che riflettesse la “legittima diseguaglianza tra le parti. Queste caratteristiche hanno imposto che nell’art. 52 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 convivessero un’architettura di base, fedele alla logica privatistica dei rapporti di lavoro, e una serie di deviazioni funzionali rispetto al modello civilistico dettato dall’art. 2103 c.c. per il settore privato. La ricaduta più rilevante di questo processo di ibridazione normativa è rinvenibile nella scelta di dispensare l’art. 52 dal rispetto del principio di “effettività” nel mutamento di mansioni, che storicamente contraddistingue la disciplina nel settore privato (almeno prima della novella del 2015) e di disciplinare differentemente la mobilità verticale. Nell’art. 52 la mobilità verso l’alto si intreccia con le fonti pubblicistiche che disciplinano gli organici e i connessi vincoli di spesa, impedendo la piena liberalizzazione delle politiche allocative che si registra in ambito privato, dove lo svolgimento in via di fatto di mansioni superiori consente, a determinate condizioni, l’avanzamento automatico nella qualifica superiore. Di contro non viene regolata l’adibizione a mansioni inferiori, laddove nel settore privato, dopo le modifiche intervenute nel 2015 sull’art. 2103 c.c., si è assistito ad un ampliamento delle fattispecie di demansionamento legittimo, in deroga al principio di nullità dei “patti contrari”, con una disciplina modellata prettamente sull’impresa privata e non esportabile nella pubblica amministrazione. Delimitando l’oggetto di indagine al solo demansionamento, nel silenzio (apparente) della legge, è necessario individuare quale sia la disciplina applicabile nel settore pubblico per poi verificare se trova applicazione, in via residuale, la disposizione codicistica dettata per il settore privato. In secondo luogo, per poter comprendere quando il mutamento di mansioni sia legittimo e quando, invece, integra un’ipotesi di demansionamento, bisogna partire dall’individuazione del perimetro di esigibilità della prestazione lavorativa richiesta al lavoratore.

Il demansionamento nel pubblico impiego

carmela garofalo
2023-01-01

Abstract

La disciplina delle mansioni nel settore pubblico è connotata da indubbi elementi di specialità rispetto al settore privato. La differente regolamentazione è figlia, oltre che dell’evoluzione storica, della permanente diversità dei principi che hanno ispirato l’intervento legislativo nei due settori: mentre nel lavoro alle dipendenze del datore di lavoro privato, i valori sottesi alla disciplina portano alla ricerca di un equilibrio tra pretesa del lavoratore di salvaguardare la propria professionalità e pretesa dell’impresa di disporre con la massima flessibilità della propria forza lavoro, nel settore pubblico l’indisponibilità degli interessi pubblici, che si ricollegano alla stabilità del ruolo organico ed alla certezza organizzativa, burocratica e finanziaria dell’amministrazione, hanno fatto sì che la materia si assestasse in un quadro che riflettesse la “legittima diseguaglianza tra le parti. Queste caratteristiche hanno imposto che nell’art. 52 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 convivessero un’architettura di base, fedele alla logica privatistica dei rapporti di lavoro, e una serie di deviazioni funzionali rispetto al modello civilistico dettato dall’art. 2103 c.c. per il settore privato. La ricaduta più rilevante di questo processo di ibridazione normativa è rinvenibile nella scelta di dispensare l’art. 52 dal rispetto del principio di “effettività” nel mutamento di mansioni, che storicamente contraddistingue la disciplina nel settore privato (almeno prima della novella del 2015) e di disciplinare differentemente la mobilità verticale. Nell’art. 52 la mobilità verso l’alto si intreccia con le fonti pubblicistiche che disciplinano gli organici e i connessi vincoli di spesa, impedendo la piena liberalizzazione delle politiche allocative che si registra in ambito privato, dove lo svolgimento in via di fatto di mansioni superiori consente, a determinate condizioni, l’avanzamento automatico nella qualifica superiore. Di contro non viene regolata l’adibizione a mansioni inferiori, laddove nel settore privato, dopo le modifiche intervenute nel 2015 sull’art. 2103 c.c., si è assistito ad un ampliamento delle fattispecie di demansionamento legittimo, in deroga al principio di nullità dei “patti contrari”, con una disciplina modellata prettamente sull’impresa privata e non esportabile nella pubblica amministrazione. Delimitando l’oggetto di indagine al solo demansionamento, nel silenzio (apparente) della legge, è necessario individuare quale sia la disciplina applicabile nel settore pubblico per poi verificare se trova applicazione, in via residuale, la disposizione codicistica dettata per il settore privato. In secondo luogo, per poter comprendere quando il mutamento di mansioni sia legittimo e quando, invece, integra un’ipotesi di demansionamento, bisogna partire dall’individuazione del perimetro di esigibilità della prestazione lavorativa richiesta al lavoratore.
2023
9788813387754
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/454949
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