La lotta alla diseguaglianza di genere in ambito lavorativo richiede un massiccio intervento sulle molteplici dimensioni della discriminazione, non solo repressivo, ma che incentivi le imprese a realizzare e garantire la parità di genere sia nel momento genetico del rapporto di lavoro sia in quello funzionale. In questa direzione si colloca la recente modifica del d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle Pari Opportunità, d’ora in poi CPO), ad opera della l. n. 162/2021 che è intervenuta da un lato per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030 di adottare e consolidare politiche e provvedimenti legislativi che promuovano la parità di genere; dall’altro lato per dare attuazione (in parte) alle riforme riconducibili alla prima componente della quinta Missione (“M5C1” – «Politiche per il lavoro») del PNRR tra cui quella di realizzare, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025), una Strategia nazionale per garantire la parità di genere, usufruendo delle risorse finanziarie stanziate dal NGEU. Nel dibattito giuslavoristico successivo alla sua emanazione, si è discusso ampiamente delle novità introdotte dalla l. n. 162/2021 con particolare riferimento alla neoistituita certificazione della parità di genere (art.46-bis CPO) e all’ampliamento dell’obbligo di redazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile (art.46 CPO). Meno dibattuta, di contro, è stata la modifica della nozione di discriminazione diretta e indiretta contenuta nell’art. 25 del CPO, foriera di diversi dubbi interpretativi a causa di una tecnica di intervento legislativo “spot, mirato, quasi chirurgico”, che ha attratto nello schema di tutela, sostanziale e processuale, pensato originariamente per il fattore di rischio “genere”, altri fattori di rischio già destinatari di specifiche discipline antidiscriminatorie

Il problematico allargamento della nozione di discriminazione nel codice delle pari opportunità

carmela garofalo
2023-01-01

Abstract

La lotta alla diseguaglianza di genere in ambito lavorativo richiede un massiccio intervento sulle molteplici dimensioni della discriminazione, non solo repressivo, ma che incentivi le imprese a realizzare e garantire la parità di genere sia nel momento genetico del rapporto di lavoro sia in quello funzionale. In questa direzione si colloca la recente modifica del d.lgs. n. 198/2006 (cd. Codice delle Pari Opportunità, d’ora in poi CPO), ad opera della l. n. 162/2021 che è intervenuta da un lato per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030 di adottare e consolidare politiche e provvedimenti legislativi che promuovano la parità di genere; dall’altro lato per dare attuazione (in parte) alle riforme riconducibili alla prima componente della quinta Missione (“M5C1” – «Politiche per il lavoro») del PNRR tra cui quella di realizzare, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025), una Strategia nazionale per garantire la parità di genere, usufruendo delle risorse finanziarie stanziate dal NGEU. Nel dibattito giuslavoristico successivo alla sua emanazione, si è discusso ampiamente delle novità introdotte dalla l. n. 162/2021 con particolare riferimento alla neoistituita certificazione della parità di genere (art.46-bis CPO) e all’ampliamento dell’obbligo di redazione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile (art.46 CPO). Meno dibattuta, di contro, è stata la modifica della nozione di discriminazione diretta e indiretta contenuta nell’art. 25 del CPO, foriera di diversi dubbi interpretativi a causa di una tecnica di intervento legislativo “spot, mirato, quasi chirurgico”, che ha attratto nello schema di tutela, sostanziale e processuale, pensato originariamente per il fattore di rischio “genere”, altri fattori di rischio già destinatari di specifiche discipline antidiscriminatorie
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