Il rischio di dumping retributivo e/o contributivo connesso alla proliferazione di contratti collettivi è stato affrontato a livello legislativo a partire dall’art. 2, c. 25, l. n. 549/1995 con la scelta del criterio della maggiore rappresentatività comparata delle parti firmatarie, nel tentativo di risolvere, almeno nelle intenzioni, i conflitti intersindacali e di indentificare interlocutori genuini e responsabili, in grado di evitare la destrutturazione delle tutele e del mercato del lavoro. Il legislatore si avvale di tale nozione per la sua valenza selettiva ai fini di determinati effetti (ipotesi connessa principalmente all’obbligo contributivo previdenziale o all’accesso ai benefici normativi ed economici) o per individuare i sindacati legittimati a derogare o integrare la disciplina normativa (tecnica utilizzata nel d.lgs. n. 276/2003 ed oggi ripresa nel d.lgs. n. 81/2015), ma omette di indicare i criteri di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per non insidiare il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39, co.1, Cost., alla luce della ormai storica inattuazione dell’art. 39, co.4, Cost.. All’assenza di una disciplina legale sulla rappresentatività, hanno sopperito da un lato le parti sociali che si sono dotate di regole autonome di misurazione della rappresentatività a cui subordinare l’attribuzione della titolarità sindacale alla negoziazione dei contratti collettivi, ma con efficacia limitata alle parti aderenti e ai settori rappresentati, e dall’altro lato la giurisprudenza e la prassi amministrativa che nel tempo hanno individuato indici sintomatici ai quali occorre fare riferimento ai fini della verifica del grado di rappresentatività comparata. Nonostante l’individuazione di criteri di selezione della contrattazione collettiva di matrice non legale, ancora oggi si registra una concreta difficoltà per gli operatori nell’individuare quale sia il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo in una determinata categoria, soprattutto di fronte al fenomeno della proliferazione di contratti “autonomi” che non mancano, però, di essere sottoscritti da sindacati maggiormente rappresentativi. La prassi consolidatasi è quella di ritenere più rappresentativi gli accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni “storiche” sia di parte datoriale che sindacale con una logica meramente presuntiva che trae il suo fondamento dalla supposizione della maggiore rappresentatività delle sigle sindacali confederali rispetto a quelle “minori”, suffragata dalle frequenti previsioni peggiorative dei contratti collettivi stipulati da queste ultime. Ne è conseguita la costruzione di una logica binaria basata sui termini di contratto “leader” e contratto “pirata”: il primo è volto a individuare, in positivo, un parametro normativo di riferimento per specifiche finalità stabilite dalla legge; il secondo si indirizza a definire, in negativo, la soglia di non adeguatezza al parametro costituzionale della giusta retribuzione. Sebbene tale soluzione sia indubbiamente dotata di buon senso pratico, appare, però, eccessivamente semplificatoria del fenomeno in quanto non tiene conto degli attuali sviluppi del sistema delle relazioni industriali in cui le organizzazioni sindacali autonome nel tempo sono cresciute, si sono dotate di strutture certe e hanno realizzato intese tutt’altro che al ribasso rispetto a quelle delle organizzazioni presuntivamente e storicamente “comparativamente più rappresentative”.Il primo sasso nello stagno è stato lanciato dall’INL con la circolare n. 7/2019 che con un revirement rispetto a quanto dichiarato solo pochi mesi prima nel proprio sito web con il comunicato del 20 giugno 2018 (successivamente rimosso), facendo riferimento alle disposizioni dell’art. 1, co. 1175, l. n. 296/2006, si è soffermato sulla valutazione della locuzione “rispetto della contrattazione collettiva” quale condizione per la fruizione dei benefici normativi e contributivi e ha indirizzato l’attività di vigilanza a svolgere un accertamento sul merito del trattamento economico/normativo effettivamente garantito ai lavoratori e non un accertamento legato ad una formale applicazione del contratto sottoscritto dalle “organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Per la prima volta si è fatta una distinzione tra i concetti di “applicazione” e “rispetto”, facendosi strada in sede amministrativa una nuova “pesatura” dei contratti collettivi, non più e non solo riferita ai contraenti, ma alla qualità dei suoi contenuti. La posizione dell’INL non ha inteso prestare il fianco ai contratti “pirata”, che devono rimanere tali e mai potranno aprire la strada ad agevolazioni economiche, ma ha evidenziato il paradosso circa una selezione contrattuale unicamente basata sui firmatari dei contratti e non sulle clausole ivi contenute. Pochi mesi dopo però lo stesso INL ha chiarito la portata dalla sua posizione. Con la circolare n. 9/2019 ha evidenziato come il contenuto della circ. n. 7/2019 sia unicamente riferibile alle condizioni richieste per le agevolazioni contributive e non anche alla funzione sussidiaria assegnata alla contrattazione collettiva dal legislatore (art. 51 d.lgs. n. 81/2015). Quindi per le agevolazioni contributive è necessario il rispetto dei livelli economici e normativi della contrattazione definita da organizzazioni comparativamente più rappresentative, mentre per le flessibilità è necessaria l’adesione alla stessa. Parallelamente anche le parti sociali hanno rinnovato la loro posizione sul tema. In particolare, va ricordata da ultimo la convenzione del 19 settembre 2019 sottoscritta da INL, INPS, Confindustria Cgil, Cisl e Uil che prevede, ai fini della misurazione della rappresentatività, la valutazione di 2 parametri: il dato associativo (numero di deleghe sottoscritte dai lavoratori relative ai contributi sindacali) per il quale si affida all’Inps il servizio di raccolta, elaborazione e comunicazione; il dato elettorale (voti espressi in occasione delle elezioni delle Rsu) per il quale viene affidata all’Inps e all’INL l’attività di raccolta. La risposta del sindacalismo autonomo è arrivata con l’accordo interconfederale sottoscritto il 28 ottobre 2019 da CIFA e CONFSAL per la promozione di un nuovo modello di relazioni industriali, di contrasto al dumping contrattuale e salariale e per la definizione di un nuovo modello di rappresentatività sindacale. L’accordo, ravvisando nel parametro della presenza sindacale del 5% di categoria il minimo per abilitare alla contrattazione, apre le porte ai “contratti di qualità” ossia contratti che recepiscano le nuove esigenze dei lavoratori e del mercato del lavoro che possono intercettare i temi della formazione, del welfare aziendale, della contrattazione decentrata, della flessibilità e della bilateralità. Nel modello viene affidata al CNEL la funzione di comparare in termini qualitativi i vari contratti. Da ultimo aleggia “lo spettro” del salario minimo legale che avrà ripercussioni sull’attuale organizzazione contrattuale, in particolar modo rispetto al primo livello di contrattazione. Il filo rosso che collega tutte queste vicende fornisce un punto privilegiato per l’osservazione degli attuali sviluppi del sistema di relazioni industriali e per una riflessione in merito sia alla comparazione tra organizzazioni sindacali al fine di individuare le più rappresentative, e quindi, di selezionare il prodotto negoziale delle stesse (il CCNL leader) sia alla comparazione tra contratti collettivi al fine di valutare l’equivalenza dei rispettivi standard di tutela. Rispetto, poi, al tema della comparazione dei contratti le valutazioni di equivalenza tra il trattamento applicato e il “parametro esterno”, richieste a livello giurisprudenziale o legislativo, impongono una riflessione sul metodo da utilizzare nel raffronto, se di carattere meramente quantitativo o disponibile a includere nella ponderazione anche aspetti qualitativi.

Pluralismo sindacale: oltre il contratto leader, v’è solo quello pirata?

carmela garofalo
2023-01-01

Abstract

Il rischio di dumping retributivo e/o contributivo connesso alla proliferazione di contratti collettivi è stato affrontato a livello legislativo a partire dall’art. 2, c. 25, l. n. 549/1995 con la scelta del criterio della maggiore rappresentatività comparata delle parti firmatarie, nel tentativo di risolvere, almeno nelle intenzioni, i conflitti intersindacali e di indentificare interlocutori genuini e responsabili, in grado di evitare la destrutturazione delle tutele e del mercato del lavoro. Il legislatore si avvale di tale nozione per la sua valenza selettiva ai fini di determinati effetti (ipotesi connessa principalmente all’obbligo contributivo previdenziale o all’accesso ai benefici normativi ed economici) o per individuare i sindacati legittimati a derogare o integrare la disciplina normativa (tecnica utilizzata nel d.lgs. n. 276/2003 ed oggi ripresa nel d.lgs. n. 81/2015), ma omette di indicare i criteri di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per non insidiare il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39, co.1, Cost., alla luce della ormai storica inattuazione dell’art. 39, co.4, Cost.. All’assenza di una disciplina legale sulla rappresentatività, hanno sopperito da un lato le parti sociali che si sono dotate di regole autonome di misurazione della rappresentatività a cui subordinare l’attribuzione della titolarità sindacale alla negoziazione dei contratti collettivi, ma con efficacia limitata alle parti aderenti e ai settori rappresentati, e dall’altro lato la giurisprudenza e la prassi amministrativa che nel tempo hanno individuato indici sintomatici ai quali occorre fare riferimento ai fini della verifica del grado di rappresentatività comparata. Nonostante l’individuazione di criteri di selezione della contrattazione collettiva di matrice non legale, ancora oggi si registra una concreta difficoltà per gli operatori nell’individuare quale sia il contratto collettivo comparativamente più rappresentativo in una determinata categoria, soprattutto di fronte al fenomeno della proliferazione di contratti “autonomi” che non mancano, però, di essere sottoscritti da sindacati maggiormente rappresentativi. La prassi consolidatasi è quella di ritenere più rappresentativi gli accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni “storiche” sia di parte datoriale che sindacale con una logica meramente presuntiva che trae il suo fondamento dalla supposizione della maggiore rappresentatività delle sigle sindacali confederali rispetto a quelle “minori”, suffragata dalle frequenti previsioni peggiorative dei contratti collettivi stipulati da queste ultime. Ne è conseguita la costruzione di una logica binaria basata sui termini di contratto “leader” e contratto “pirata”: il primo è volto a individuare, in positivo, un parametro normativo di riferimento per specifiche finalità stabilite dalla legge; il secondo si indirizza a definire, in negativo, la soglia di non adeguatezza al parametro costituzionale della giusta retribuzione. Sebbene tale soluzione sia indubbiamente dotata di buon senso pratico, appare, però, eccessivamente semplificatoria del fenomeno in quanto non tiene conto degli attuali sviluppi del sistema delle relazioni industriali in cui le organizzazioni sindacali autonome nel tempo sono cresciute, si sono dotate di strutture certe e hanno realizzato intese tutt’altro che al ribasso rispetto a quelle delle organizzazioni presuntivamente e storicamente “comparativamente più rappresentative”.Il primo sasso nello stagno è stato lanciato dall’INL con la circolare n. 7/2019 che con un revirement rispetto a quanto dichiarato solo pochi mesi prima nel proprio sito web con il comunicato del 20 giugno 2018 (successivamente rimosso), facendo riferimento alle disposizioni dell’art. 1, co. 1175, l. n. 296/2006, si è soffermato sulla valutazione della locuzione “rispetto della contrattazione collettiva” quale condizione per la fruizione dei benefici normativi e contributivi e ha indirizzato l’attività di vigilanza a svolgere un accertamento sul merito del trattamento economico/normativo effettivamente garantito ai lavoratori e non un accertamento legato ad una formale applicazione del contratto sottoscritto dalle “organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Per la prima volta si è fatta una distinzione tra i concetti di “applicazione” e “rispetto”, facendosi strada in sede amministrativa una nuova “pesatura” dei contratti collettivi, non più e non solo riferita ai contraenti, ma alla qualità dei suoi contenuti. La posizione dell’INL non ha inteso prestare il fianco ai contratti “pirata”, che devono rimanere tali e mai potranno aprire la strada ad agevolazioni economiche, ma ha evidenziato il paradosso circa una selezione contrattuale unicamente basata sui firmatari dei contratti e non sulle clausole ivi contenute. Pochi mesi dopo però lo stesso INL ha chiarito la portata dalla sua posizione. Con la circolare n. 9/2019 ha evidenziato come il contenuto della circ. n. 7/2019 sia unicamente riferibile alle condizioni richieste per le agevolazioni contributive e non anche alla funzione sussidiaria assegnata alla contrattazione collettiva dal legislatore (art. 51 d.lgs. n. 81/2015). Quindi per le agevolazioni contributive è necessario il rispetto dei livelli economici e normativi della contrattazione definita da organizzazioni comparativamente più rappresentative, mentre per le flessibilità è necessaria l’adesione alla stessa. Parallelamente anche le parti sociali hanno rinnovato la loro posizione sul tema. In particolare, va ricordata da ultimo la convenzione del 19 settembre 2019 sottoscritta da INL, INPS, Confindustria Cgil, Cisl e Uil che prevede, ai fini della misurazione della rappresentatività, la valutazione di 2 parametri: il dato associativo (numero di deleghe sottoscritte dai lavoratori relative ai contributi sindacali) per il quale si affida all’Inps il servizio di raccolta, elaborazione e comunicazione; il dato elettorale (voti espressi in occasione delle elezioni delle Rsu) per il quale viene affidata all’Inps e all’INL l’attività di raccolta. La risposta del sindacalismo autonomo è arrivata con l’accordo interconfederale sottoscritto il 28 ottobre 2019 da CIFA e CONFSAL per la promozione di un nuovo modello di relazioni industriali, di contrasto al dumping contrattuale e salariale e per la definizione di un nuovo modello di rappresentatività sindacale. L’accordo, ravvisando nel parametro della presenza sindacale del 5% di categoria il minimo per abilitare alla contrattazione, apre le porte ai “contratti di qualità” ossia contratti che recepiscano le nuove esigenze dei lavoratori e del mercato del lavoro che possono intercettare i temi della formazione, del welfare aziendale, della contrattazione decentrata, della flessibilità e della bilateralità. Nel modello viene affidata al CNEL la funzione di comparare in termini qualitativi i vari contratti. Da ultimo aleggia “lo spettro” del salario minimo legale che avrà ripercussioni sull’attuale organizzazione contrattuale, in particolar modo rispetto al primo livello di contrattazione. Il filo rosso che collega tutte queste vicende fornisce un punto privilegiato per l’osservazione degli attuali sviluppi del sistema di relazioni industriali e per una riflessione in merito sia alla comparazione tra organizzazioni sindacali al fine di individuare le più rappresentative, e quindi, di selezionare il prodotto negoziale delle stesse (il CCNL leader) sia alla comparazione tra contratti collettivi al fine di valutare l’equivalenza dei rispettivi standard di tutela. Rispetto, poi, al tema della comparazione dei contratti le valutazioni di equivalenza tra il trattamento applicato e il “parametro esterno”, richieste a livello giurisprudenziale o legislativo, impongono una riflessione sul metodo da utilizzare nel raffronto, se di carattere meramente quantitativo o disponibile a includere nella ponderazione anche aspetti qualitativi.
2023
979-12-80922-13-7
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