All’indomani della firma del Trattato di Roma del 1957, gli organismi comunitari avviarono un’articolata riflessione sul problema degli squilibri e delle disparità regionali all’interno della Comunità. Fino alla creazione del Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), nel 1975, gli strumenti a disposizione della Commissione europea per predisporre, assieme ai paesi membri, interventi nelle aree depresse si sarebbero rivelati alquanto limitati, e consistevano prevalentemente nei prestiti erogati dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e nelle dotazioni del Fondo Sociale Europeo (FSE) e del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e di Garanzia (FEOGA). Del resto, al momento della firma dei Trattati istitutivi della CEE, diversi paesi della Comunità, come nel caso dell’Italia con il suo Mezzogiorno, avevano già messo a punto strumenti e metodi di intervento straordinario che, di lì a poco, avrebbero rappresentato gli interlocutori privilegiati degli organismi comunitari per il recupero dei divari regionali. A partire dalla prima metà degli anni Sessanta, si cominciò però a riflettere sulla partecipazione degli enti e delle classi dirigenti locali dei territori depressi alla definizione dei metodi e delle finalità della politica regionale comunitaria. In Italia, l’esigenza si manifestò concretamente a partire dall’articolazione regionale delle procedure della programmazione economica, avviata nel 1964, e destinata a compiersi con la creazione, nelle diverse regioni, di appositi Comitati. Il presente saggio si pone l’obiettivo di indagare le forme di attivazione dal basso e le risposte attraverso cui le classi dirigenti locali e le stesse istituzioni regionali, tra il 1958 ed il 1975, hanno interagito attivamente nello spazio europeo, dinanzi agli stimoli prodotti in ambito comunitario. Se il 1958 rappresenta il momento di avvio dei primi strumenti di riequilibrio regionale nell’ambito della Comunità – fatta eccezione per le risorse destinate dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) al riequilibrio delle aree carbo-siderurgiche – il 1975 è assunto come termine finale. La creazione del FESR avrebbe infatti avviato un percorso di progressivo inserimento delle istituzioni e degli enti locali nel contesto della programmazione e della spesa delle risorse comunitarie destinate alla politica regionale, un percorso destinato a compiersi nella seconda metà degli anni Ottanta e che merita di essere indagato nel suo complesso. La Puglia, regione pianeggiante del Mezzogiorno d’Italia, è assunta come osservatorio dei processi di formazione, presso le classi dirigenti regionali, di forme di consapevolezza delle ricadute territoriali del percorso di costruzione di un mercato comune e del modo come, tra il 1958 ed il 1975, si sia guardato alla necessità e alla possibilità di collocare nel contesto comunitario i problemi del decollo economico della regione. Questa consapevolezza, maturata dapprima negli ambienti economici e commerciali, si è successivamente sviluppata presso più ampie porzioni dei gruppi dirigenti, fino a permeare, per questa via, organismi e istituzioni regionali finalizzati allo sviluppo endogeno della Puglia, orientandone le decisioni. In quegli anni, la ricerca di spazi di confronto con le istituzioni comunitarie andava sollecitando la reazione delle autorità nazionali, insofferenti, a dispetto delle tradizionali esternazioni di fede europeista, del tentativo posto in essere dalle realtà politiche ed economiche regionali di stabilire contatti e comunicazioni dirette con la Comunità.

La Puglia nel processo di integrazione europea. Politica e programmazione dello sviluppo regionale prima del FESR (1958-1975)

Antonio Bonatesta
2012-01-01

Abstract

All’indomani della firma del Trattato di Roma del 1957, gli organismi comunitari avviarono un’articolata riflessione sul problema degli squilibri e delle disparità regionali all’interno della Comunità. Fino alla creazione del Fondo europeo per lo sviluppo regionale (FESR), nel 1975, gli strumenti a disposizione della Commissione europea per predisporre, assieme ai paesi membri, interventi nelle aree depresse si sarebbero rivelati alquanto limitati, e consistevano prevalentemente nei prestiti erogati dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI) e nelle dotazioni del Fondo Sociale Europeo (FSE) e del Fondo Europeo Agricolo di Orientamento e di Garanzia (FEOGA). Del resto, al momento della firma dei Trattati istitutivi della CEE, diversi paesi della Comunità, come nel caso dell’Italia con il suo Mezzogiorno, avevano già messo a punto strumenti e metodi di intervento straordinario che, di lì a poco, avrebbero rappresentato gli interlocutori privilegiati degli organismi comunitari per il recupero dei divari regionali. A partire dalla prima metà degli anni Sessanta, si cominciò però a riflettere sulla partecipazione degli enti e delle classi dirigenti locali dei territori depressi alla definizione dei metodi e delle finalità della politica regionale comunitaria. In Italia, l’esigenza si manifestò concretamente a partire dall’articolazione regionale delle procedure della programmazione economica, avviata nel 1964, e destinata a compiersi con la creazione, nelle diverse regioni, di appositi Comitati. Il presente saggio si pone l’obiettivo di indagare le forme di attivazione dal basso e le risposte attraverso cui le classi dirigenti locali e le stesse istituzioni regionali, tra il 1958 ed il 1975, hanno interagito attivamente nello spazio europeo, dinanzi agli stimoli prodotti in ambito comunitario. Se il 1958 rappresenta il momento di avvio dei primi strumenti di riequilibrio regionale nell’ambito della Comunità – fatta eccezione per le risorse destinate dalla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) al riequilibrio delle aree carbo-siderurgiche – il 1975 è assunto come termine finale. La creazione del FESR avrebbe infatti avviato un percorso di progressivo inserimento delle istituzioni e degli enti locali nel contesto della programmazione e della spesa delle risorse comunitarie destinate alla politica regionale, un percorso destinato a compiersi nella seconda metà degli anni Ottanta e che merita di essere indagato nel suo complesso. La Puglia, regione pianeggiante del Mezzogiorno d’Italia, è assunta come osservatorio dei processi di formazione, presso le classi dirigenti regionali, di forme di consapevolezza delle ricadute territoriali del percorso di costruzione di un mercato comune e del modo come, tra il 1958 ed il 1975, si sia guardato alla necessità e alla possibilità di collocare nel contesto comunitario i problemi del decollo economico della regione. Questa consapevolezza, maturata dapprima negli ambienti economici e commerciali, si è successivamente sviluppata presso più ampie porzioni dei gruppi dirigenti, fino a permeare, per questa via, organismi e istituzioni regionali finalizzati allo sviluppo endogeno della Puglia, orientandone le decisioni. In quegli anni, la ricerca di spazi di confronto con le istituzioni comunitarie andava sollecitando la reazione delle autorità nazionali, insofferenti, a dispetto delle tradizionali esternazioni di fede europeista, del tentativo posto in essere dalle realtà politiche ed economiche regionali di stabilire contatti e comunicazioni dirette con la Comunità.
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