La rappresentazione della campagna, intesa come sito di molteplici tensioni inconciliabili tra natura e cultura, passato e presente, razionalità e irrazionale, religione cattolica e pratiche di ascendenza pagana, ha senza ombra di dubbio punteggiato la storia del cinema italiano nella sua interezza, acquisendo però un assoluto protagonismo nel cosiddetto folk horror. Già durante gli anni Sessanta e Settanta, infatti, titoli come Il demonio (Brunello Rondi, 1963), Un tranquillo posto di campagna (Elio Petri, 1968), Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972) e La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976) pongono al centro delle loro angoscianti narrazioni il mondo contadino e il suo panorama di minuscoli paesi, stalle e pascoli, campi coltivati, boschi e piccoli corsi d’acqua. Dopo un momento di pausa durante gli anni Ottanta e Novanta, la produzione di film ascrivibili al filone folk horror sembra avere acquisito una nuova vitalità, a partire dai lavori di Lorenzo Bianchini (Custodes Bestiae realizzato nel 2004 e Across the River – Oltre il guado uscito nel 2013), passando per Il Signor Diavolo, film diretto dal decano del genere Pupi Avati nel 2019, fino a due opere distribuite dalla piattaforma di streaming Netflix, come Il legame (Domenico De Feudis, 2020) e A Classic Horror Story (Roberto De Feo, Paolo Strippoli, 2021). Facendo riferimento a una definizione del folk horror cinematografico desunta dalla recente letteratura accademica sul tema, in questo articolo si analizzeranno le costanti tematiche, narrative ed espressive che accomunano questi ultimi cinque film tra loro e che, più in generale, li inseriscono all’interno di una prolifica tendenza produttiva globale che negli ultimi due decenni ha tagliato trasversalmente varie cinematografie nazionali.
(NON) Un tranquillo posto di campagna. Note sul folk horror italiano contemporaneo
Federico Zecca
2022-01-01
Abstract
La rappresentazione della campagna, intesa come sito di molteplici tensioni inconciliabili tra natura e cultura, passato e presente, razionalità e irrazionale, religione cattolica e pratiche di ascendenza pagana, ha senza ombra di dubbio punteggiato la storia del cinema italiano nella sua interezza, acquisendo però un assoluto protagonismo nel cosiddetto folk horror. Già durante gli anni Sessanta e Settanta, infatti, titoli come Il demonio (Brunello Rondi, 1963), Un tranquillo posto di campagna (Elio Petri, 1968), Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1972) e La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976) pongono al centro delle loro angoscianti narrazioni il mondo contadino e il suo panorama di minuscoli paesi, stalle e pascoli, campi coltivati, boschi e piccoli corsi d’acqua. Dopo un momento di pausa durante gli anni Ottanta e Novanta, la produzione di film ascrivibili al filone folk horror sembra avere acquisito una nuova vitalità, a partire dai lavori di Lorenzo Bianchini (Custodes Bestiae realizzato nel 2004 e Across the River – Oltre il guado uscito nel 2013), passando per Il Signor Diavolo, film diretto dal decano del genere Pupi Avati nel 2019, fino a due opere distribuite dalla piattaforma di streaming Netflix, come Il legame (Domenico De Feudis, 2020) e A Classic Horror Story (Roberto De Feo, Paolo Strippoli, 2021). Facendo riferimento a una definizione del folk horror cinematografico desunta dalla recente letteratura accademica sul tema, in questo articolo si analizzeranno le costanti tematiche, narrative ed espressive che accomunano questi ultimi cinque film tra loro e che, più in generale, li inseriscono all’interno di una prolifica tendenza produttiva globale che negli ultimi due decenni ha tagliato trasversalmente varie cinematografie nazionali.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.