Negli abituali rapporti con le cose tendiamo a dare per scontata la loro familiare presenza che il nostro sguardo tende a rivestire di senso nella misura in cui risultano essere utili. Quando non servono più le dismettiamo. Le gettiamo via o le regaliamo, nella più nobile ipotesi che esse possano riacquistare senso in altri luoghi o in altri spazi. Quello che non consideriamo quasi mai e che, invece, balza chiarissimo ai nostri occhi in rare occasioni è che le cose, anche quelle più banali, hanno un’anima. Il cucchiaio di legno con il quale mia nonna rimestava il sugo, la poltrona sulla quale il babbo, a fine giornata mi prendeva sulle sue ginocchia e mi raccontava una storia, il tavolo di legno sul quale studiavo o l’abito che indossavo agli esami dell’Università. E poi, l’anello di fidanzamento, la penna “importante” ricevuta dalla migliore amica il giorno della laurea. Tutte cose “banali” che acquisiscono un valore, anche molto alto, tale che non vogliamo separarcene, tanto da preservare la loro esistenza tramandandole in modo quasi rituale “di padre in figlio”. Fin qui, appare chiaro che questa stratificazione di senso è un processo legato al modo in cui noi, meglio, la nostra mente vede questi oggetti. È il mio sguardo, il portato emotivo del mio sguardo ad attribuire senso e valore alle cose. Sono oggetti che rappresentano delle ancore, la manifestazione materiale di certezze che sono davanti ai miei occhi. Questo processo fa sì che, con il passare del tempo, quelle cose vivano di vita propria. Ecco, dunque, che #mynewoffice irrompe, con raffinata ironia, scardinando questa visione del rapporto fra noi e le cose ed estendendo a tutte le cose la capacità di vivere di vita propria tanto quanto ne rideterminiamo il significato. Ogni scatto presenta un mondo che Pasquale Leccese significa attraverso l’uso studiato dell’outfit. Ciò che indossa offre una chiave di lettura di quello che popola il mondo attorno a lui. È il modo del suo stare che suggerisce al fruitore come immaginare la storia che quell’immagine racconta. Inserisce elementi come riviste o libri che denotano il pensiero o il messaggio che l’hashtag, in un secondo momento, rimarca, soprattutto quando le immagini sono prive della sua presenza. Le cose dialogano con chi le guarda ed il lessico è solo quello dell’occhio. Il logos, la lettera, viene dopo per dichiarare che il modo in cui noi facciamo è lo specchio di quello che si è e che, qualunque sia la condizione, siamo noi con il nostro portato emotivo a qualificare il luogo che abitiamo, attribuendogli quello che i latini definivano il genius loci.

My new office

Maristella Trombetta
;
2021-01-01

Abstract

Negli abituali rapporti con le cose tendiamo a dare per scontata la loro familiare presenza che il nostro sguardo tende a rivestire di senso nella misura in cui risultano essere utili. Quando non servono più le dismettiamo. Le gettiamo via o le regaliamo, nella più nobile ipotesi che esse possano riacquistare senso in altri luoghi o in altri spazi. Quello che non consideriamo quasi mai e che, invece, balza chiarissimo ai nostri occhi in rare occasioni è che le cose, anche quelle più banali, hanno un’anima. Il cucchiaio di legno con il quale mia nonna rimestava il sugo, la poltrona sulla quale il babbo, a fine giornata mi prendeva sulle sue ginocchia e mi raccontava una storia, il tavolo di legno sul quale studiavo o l’abito che indossavo agli esami dell’Università. E poi, l’anello di fidanzamento, la penna “importante” ricevuta dalla migliore amica il giorno della laurea. Tutte cose “banali” che acquisiscono un valore, anche molto alto, tale che non vogliamo separarcene, tanto da preservare la loro esistenza tramandandole in modo quasi rituale “di padre in figlio”. Fin qui, appare chiaro che questa stratificazione di senso è un processo legato al modo in cui noi, meglio, la nostra mente vede questi oggetti. È il mio sguardo, il portato emotivo del mio sguardo ad attribuire senso e valore alle cose. Sono oggetti che rappresentano delle ancore, la manifestazione materiale di certezze che sono davanti ai miei occhi. Questo processo fa sì che, con il passare del tempo, quelle cose vivano di vita propria. Ecco, dunque, che #mynewoffice irrompe, con raffinata ironia, scardinando questa visione del rapporto fra noi e le cose ed estendendo a tutte le cose la capacità di vivere di vita propria tanto quanto ne rideterminiamo il significato. Ogni scatto presenta un mondo che Pasquale Leccese significa attraverso l’uso studiato dell’outfit. Ciò che indossa offre una chiave di lettura di quello che popola il mondo attorno a lui. È il modo del suo stare che suggerisce al fruitore come immaginare la storia che quell’immagine racconta. Inserisce elementi come riviste o libri che denotano il pensiero o il messaggio che l’hashtag, in un secondo momento, rimarca, soprattutto quando le immagini sono prive della sua presenza. Le cose dialogano con chi le guarda ed il lessico è solo quello dell’occhio. Il logos, la lettera, viene dopo per dichiarare che il modo in cui noi facciamo è lo specchio di quello che si è e che, qualunque sia la condizione, siamo noi con il nostro portato emotivo a qualificare il luogo che abitiamo, attribuendogli quello che i latini definivano il genius loci.
2021
9788874902989
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/393924
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