La voce di Bowie è uno strumento destabilizzante e imprevedibile che fa pensare all’arte come forma di divenire piuttosto che di essere e soprattutto come spazio profondamente ironico. Il cantante enfatizza volontariamente la sua voce utilizzando inflessioni spesso esagerate, grottesche, per far comprendere al pubblico che ogni sua canzone è una performance consapevole. Bowie, in breve, non fa che mettere in scena la sua voce; di qui gli improvvisi cambi di registro e i salti di ottava con cui giocare con l’identità di genere o le alterazioni elettroniche che, sin dai tempi di The Laughing Gnome, ci proiettano in una sorta di palcoscenico sonoro. È possibile parlare, soprattutto per il Bowie più maturo, di un uso carnevalesco della voce, in cui inflessioni, accenti, rumori e suoni che rimandano all’articolazione corporea (si pensi all’incipit del recentissimo ‘Tis a Pity She’s a Whore da Blackstar) riescono a rendere visibile, presente il corpo apparentemente assente del performer. Altri aspetti della teatralizzazione della voce da parte di Bowie sono rappresentati dal suo uso del melisma, e dal falsetto con cui riesce ad accedere attraverso il suo corpo maschile ad uno spazio sonoro femminile. C’è poi nell’opera dell’artista inglese una componente drammatica essenziale che è data dal dialogo tra il cantante e i suoi musicisti. L’unicità della grana vocale è un parametro di valutazione che va oltre la voce in senso stretto, per interessare ogni sorta di strumentista. Il suono è immagine, è immagine sonora, è voce, è un dire che prescinde dal detto e che è significativo di per sé. Nella sua capacità di attraversare molteplici generi musicali, articolando un sound pluristilistico e pluridiscorsivo Bowie è riuscito a dialogare con paesaggi e personaggi sonori imprevisti e imprevedibili, sempre eccedenti, e spesso inauditi.

Voce, suono, sperimentazione. La musica di Bowie come teatro

Martino, P.
2017-01-01

Abstract

La voce di Bowie è uno strumento destabilizzante e imprevedibile che fa pensare all’arte come forma di divenire piuttosto che di essere e soprattutto come spazio profondamente ironico. Il cantante enfatizza volontariamente la sua voce utilizzando inflessioni spesso esagerate, grottesche, per far comprendere al pubblico che ogni sua canzone è una performance consapevole. Bowie, in breve, non fa che mettere in scena la sua voce; di qui gli improvvisi cambi di registro e i salti di ottava con cui giocare con l’identità di genere o le alterazioni elettroniche che, sin dai tempi di The Laughing Gnome, ci proiettano in una sorta di palcoscenico sonoro. È possibile parlare, soprattutto per il Bowie più maturo, di un uso carnevalesco della voce, in cui inflessioni, accenti, rumori e suoni che rimandano all’articolazione corporea (si pensi all’incipit del recentissimo ‘Tis a Pity She’s a Whore da Blackstar) riescono a rendere visibile, presente il corpo apparentemente assente del performer. Altri aspetti della teatralizzazione della voce da parte di Bowie sono rappresentati dal suo uso del melisma, e dal falsetto con cui riesce ad accedere attraverso il suo corpo maschile ad uno spazio sonoro femminile. C’è poi nell’opera dell’artista inglese una componente drammatica essenziale che è data dal dialogo tra il cantante e i suoi musicisti. L’unicità della grana vocale è un parametro di valutazione che va oltre la voce in senso stretto, per interessare ogni sorta di strumentista. Il suono è immagine, è immagine sonora, è voce, è un dire che prescinde dal detto e che è significativo di per sé. Nella sua capacità di attraversare molteplici generi musicali, articolando un sound pluristilistico e pluridiscorsivo Bowie è riuscito a dialogare con paesaggi e personaggi sonori imprevisti e imprevedibili, sempre eccedenti, e spesso inauditi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/374351
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