«Cristo vale meno di un ballerino?» è la provocatoria domanda che, alla fine del IV secolo, il padre della Chiesa Giovanni Crisostomo rivolge ai cristiani di Antiochia (Turchia), sempre pronti a spendere parole vane e denaro per ammirare attori e ballerini preferiti, ma incapaci di rispondere ad alcuna domanda riguardante la propria fede, perché poco preparati e distratti dagli spettacoli e danze di vario genere. Dal quesito posto dal Crisostomo prende spunto la mia indagine storica sulla danza e il suo accompagnamento musicale, generalmente avversati nel corso della tarda antichità (II-VI secolo) dai membri della gerarchia ecclesiastica, ma così amati da tanti cristiani in Oriente come in Occidente. Come dimostrato dall’analisi delle fonti letterarie, normative ed epigrafiche, nonostante varie limitazioni e proibizioni prescritte, i cristiani hanno continuato ad ammirare i ballerini e a danzare essi stessi negli spazi pubblici, privati e sacri soprattutto dell’Africa Proconsolare e dell’area franco-spagnola, ma anche di Roma, Milano e dell’Asia Minore. La danza, sia essa legata alla realtà teatrale o a quella conviviale e sacrale, è vietata perché conserva, in chi la pratica e in chi la osserva da spettatore, la memoria di ciò che gli autori cristiani e gli esponenti della gerarchia hanno chiamato ‘paganesimo’, inteso come una minaccia non tanto per la sua accezione religiosa stricto sensu, piuttosto in quanto espressione di una continuità culturale e, perciò, identitaria condivisa e vissuta anche dai cristiani. Infatti, i cristiani hanno danzato, per esempio, in onore dei martiri e dei santi, sebbene tali pratiche fossero giudicate negativamente per la loro frequente oscenità, l’evidente richiamo ai rituali pagani e perché fuori dal controllo della gerarchia ecclesiastica. Ha origini antiche, dunque, l’atteggiamento di estrema cautela che la Chiesa cattolica ancora oggi mostra nell’accettazione delle espressioni devozionali coreutiche, che, secondo il Direttorio su Pietà popolare e Liturgia (17), devono avere una diffusione limitata ed «essere manifestazioni di vera preghiera comune e non semplicemente spettacolo». In definitiva, come provato da quest’ultima e recente attestazione, le pratiche devozionali coreutico-musicali in onore dei santi sono senza dubbio persistenti nel ‘vissuto’ dei cristiani di molte parti del mondo, a testimonianza di un fenomeno radicalmente profondo che, come un ‘fiume carsico’, valica i confini dello spazio e del tempo, per ‘affiorare’ nelle odierne espressioni di pietà popolare, che ‒ come afferma John J. Pilch ‒ «è una forza potente difficile da imbrigliare o da correggere, e in molti casi è essa che l’ha vinta».

«Cristo vale meno di un ballerino?». Danza e musica strumentale nel vissuto dei cristiani di età tardoantica

Mario Resta
2021-01-01

Abstract

«Cristo vale meno di un ballerino?» è la provocatoria domanda che, alla fine del IV secolo, il padre della Chiesa Giovanni Crisostomo rivolge ai cristiani di Antiochia (Turchia), sempre pronti a spendere parole vane e denaro per ammirare attori e ballerini preferiti, ma incapaci di rispondere ad alcuna domanda riguardante la propria fede, perché poco preparati e distratti dagli spettacoli e danze di vario genere. Dal quesito posto dal Crisostomo prende spunto la mia indagine storica sulla danza e il suo accompagnamento musicale, generalmente avversati nel corso della tarda antichità (II-VI secolo) dai membri della gerarchia ecclesiastica, ma così amati da tanti cristiani in Oriente come in Occidente. Come dimostrato dall’analisi delle fonti letterarie, normative ed epigrafiche, nonostante varie limitazioni e proibizioni prescritte, i cristiani hanno continuato ad ammirare i ballerini e a danzare essi stessi negli spazi pubblici, privati e sacri soprattutto dell’Africa Proconsolare e dell’area franco-spagnola, ma anche di Roma, Milano e dell’Asia Minore. La danza, sia essa legata alla realtà teatrale o a quella conviviale e sacrale, è vietata perché conserva, in chi la pratica e in chi la osserva da spettatore, la memoria di ciò che gli autori cristiani e gli esponenti della gerarchia hanno chiamato ‘paganesimo’, inteso come una minaccia non tanto per la sua accezione religiosa stricto sensu, piuttosto in quanto espressione di una continuità culturale e, perciò, identitaria condivisa e vissuta anche dai cristiani. Infatti, i cristiani hanno danzato, per esempio, in onore dei martiri e dei santi, sebbene tali pratiche fossero giudicate negativamente per la loro frequente oscenità, l’evidente richiamo ai rituali pagani e perché fuori dal controllo della gerarchia ecclesiastica. Ha origini antiche, dunque, l’atteggiamento di estrema cautela che la Chiesa cattolica ancora oggi mostra nell’accettazione delle espressioni devozionali coreutiche, che, secondo il Direttorio su Pietà popolare e Liturgia (17), devono avere una diffusione limitata ed «essere manifestazioni di vera preghiera comune e non semplicemente spettacolo». In definitiva, come provato da quest’ultima e recente attestazione, le pratiche devozionali coreutico-musicali in onore dei santi sono senza dubbio persistenti nel ‘vissuto’ dei cristiani di molte parti del mondo, a testimonianza di un fenomeno radicalmente profondo che, come un ‘fiume carsico’, valica i confini dello spazio e del tempo, per ‘affiorare’ nelle odierne espressioni di pietà popolare, che ‒ come afferma John J. Pilch ‒ «è una forza potente difficile da imbrigliare o da correggere, e in molti casi è essa che l’ha vinta».
2021
9788872289488
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/368675
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