Concentrando l’attenzione su pagine dei Berliner Manuskripte, scritte intorno al 1830, e cioè in piene trionfo hegeliano, Schopenhauer, ritornando sulla questione del Ding an sich, riconferma che questa non è soltanto la grande questione di Kant, ma è la grande questione della filosofia se vogliamo difendere anche il significato morale della nostra esistenza e l’innegabile (unleugbar) significato morale dell’agire umano. Ma, quel che interessa è l’intera riformulazione della problema perché, da un lato si fa un ultimo tentativo di salvare la Cosa in sé argomentando con Kant, d’altro lato si registra un rinnovato smacco nel cercare di andare oltre la rappresentazione a partire dalla rappresentazione, dando efficacia fuori dalla rappresentazione alla categoria di causalità. L’errore di esposizione in Kant, non sanziona, però, secondo Schopenhauer, l’esclusione della posizione della Cosa in sé. Si passa, dunque, all’esposizione schopenhaueriana dell’argomento tramite la logica della sottrazione: sottraendo le forme universali-soggettive di spazio-tempo-causalità e la forma dell’essere oggetto (che sono a priori) ciò che resta di individuale in ogni rappresentazione proviene da altro ed è la cosa in sé (ciò che conferisce all’apparenza il suo carattere ogni volta individuale). L’insieme di ciò che appare è un composto di a priori sempre determinabile e di un a posteriori che di volta in volta ne costituisce il contenuto, che, dunque, per la sua novità annuncia la cosa in sé. È un’argomentazione che si affianca all’altra che noi abbiamo anche tramite il nostro corpo e la nostra volontà una diretta attestazione della cosa in sé. E vi si affianca per l’impegno che Schopenhauer mette in un’estrema difesa della prova kantiana della cosa in sé che è però destinata a fallire e a lasciare il campo sia allo scetticismo di Enesidemo, sia alla versione fichtiana dell’Intellektuale Anschauung (cui contrappone la Intellektualität der Anschauung), sia alla ragione hegeliana. L’esegesi di questi passi non aiuta soltanto a ricordare che se la volontà è la più immediata manifestazione della cosa in sé non è però tutta e soltanto la cosa in sé, o che si può avere una buona teoria ma difenderla male (che è quanto precisamente viene imputato a Kant), ma mostra come Schopenhauer avesse ben presenti due questioni. La prima: che se vigono soltanto le leggi della ‘rappresentazione’ allora la dimensione morale è un’illusione. La seconda: che una volta stabilito il contenuto a posteriori della rappresentazione (e dunque provata, per sottrazione, la parte che in quella rappresentazione è cosa in sé) non si è ancora stabilito se quel contenuto mi giunga oggettivamente o invece nella maniera più soggettiva, poiché è chiaro che il primo passaggio è la percezione sensoriale (Sinnesempfindung). Schopenhauer non si appella ad una posizione superiore della coscienza trascendentale che giustificherebbe il realismo della coscienza comune (salvaguardandosi così dall’idealismo gnoseologico) o ad una fede nel mondo esterno. Confessa, al contrario, l’asperità del problema: il contenuto oggettivo della realtà mi giunge per via soggettiva. Non c’è reale risposta né a come l’oggettivo (a posteriori) e il soggettivo (a priori) s’incontrino, né a come quell’oggettività venga salvaguardata; e, tuttavia, sia la conoscenza della realtà sia la concezione morale le esigerebbero.

In margine al "Ding an sich". Schopenhauer "discepolo" di Kant

MEATTINI, Valerio
2013-01-01

Abstract

Concentrando l’attenzione su pagine dei Berliner Manuskripte, scritte intorno al 1830, e cioè in piene trionfo hegeliano, Schopenhauer, ritornando sulla questione del Ding an sich, riconferma che questa non è soltanto la grande questione di Kant, ma è la grande questione della filosofia se vogliamo difendere anche il significato morale della nostra esistenza e l’innegabile (unleugbar) significato morale dell’agire umano. Ma, quel che interessa è l’intera riformulazione della problema perché, da un lato si fa un ultimo tentativo di salvare la Cosa in sé argomentando con Kant, d’altro lato si registra un rinnovato smacco nel cercare di andare oltre la rappresentazione a partire dalla rappresentazione, dando efficacia fuori dalla rappresentazione alla categoria di causalità. L’errore di esposizione in Kant, non sanziona, però, secondo Schopenhauer, l’esclusione della posizione della Cosa in sé. Si passa, dunque, all’esposizione schopenhaueriana dell’argomento tramite la logica della sottrazione: sottraendo le forme universali-soggettive di spazio-tempo-causalità e la forma dell’essere oggetto (che sono a priori) ciò che resta di individuale in ogni rappresentazione proviene da altro ed è la cosa in sé (ciò che conferisce all’apparenza il suo carattere ogni volta individuale). L’insieme di ciò che appare è un composto di a priori sempre determinabile e di un a posteriori che di volta in volta ne costituisce il contenuto, che, dunque, per la sua novità annuncia la cosa in sé. È un’argomentazione che si affianca all’altra che noi abbiamo anche tramite il nostro corpo e la nostra volontà una diretta attestazione della cosa in sé. E vi si affianca per l’impegno che Schopenhauer mette in un’estrema difesa della prova kantiana della cosa in sé che è però destinata a fallire e a lasciare il campo sia allo scetticismo di Enesidemo, sia alla versione fichtiana dell’Intellektuale Anschauung (cui contrappone la Intellektualität der Anschauung), sia alla ragione hegeliana. L’esegesi di questi passi non aiuta soltanto a ricordare che se la volontà è la più immediata manifestazione della cosa in sé non è però tutta e soltanto la cosa in sé, o che si può avere una buona teoria ma difenderla male (che è quanto precisamente viene imputato a Kant), ma mostra come Schopenhauer avesse ben presenti due questioni. La prima: che se vigono soltanto le leggi della ‘rappresentazione’ allora la dimensione morale è un’illusione. La seconda: che una volta stabilito il contenuto a posteriori della rappresentazione (e dunque provata, per sottrazione, la parte che in quella rappresentazione è cosa in sé) non si è ancora stabilito se quel contenuto mi giunga oggettivamente o invece nella maniera più soggettiva, poiché è chiaro che il primo passaggio è la percezione sensoriale (Sinnesempfindung). Schopenhauer non si appella ad una posizione superiore della coscienza trascendentale che giustificherebbe il realismo della coscienza comune (salvaguardandosi così dall’idealismo gnoseologico) o ad una fede nel mondo esterno. Confessa, al contrario, l’asperità del problema: il contenuto oggettivo della realtà mi giunge per via soggettiva. Non c’è reale risposta né a come l’oggettivo (a posteriori) e il soggettivo (a priori) s’incontrino, né a come quell’oggettività venga salvaguardata; e, tuttavia, sia la conoscenza della realtà sia la concezione morale le esigerebbero.
2013
978-3-11-024649-0
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