L’articolo propone un confronto tra The Return of the Native (1878) di Thomas Hardy e The Lowland (2013) di Jhumpa Lahiri. Nonostante gli autori siano distanti per contesto storico e vicende biografiche, l’analisi intende esplorare il significato profondo dello spazio liminale che in entrambi i romanzi sembra stagliarsi al di sopra dei personaggi. Il confronto tra Egdon Heath, la brughiera del Wessex in cui lo scrittore tardo-vittoriano ambienta la vicenda, e la spianata (lowland) della periferia di Calcutta, attorno alla quale gli eventi del romanzo di Lahiri si intrecciano, testimonia il significato dello spazio liminale come metafora di sconfinamento di confini locali e transnazionali. Luoghi ambivalenti, attraversati da immagini di vita e morte, la brughiera e la spianata sono come caratterizzati da un linguaggio naturale (landguage), che non tutti i personaggi sembrano comprendere. La brughiera si configura come spazio in movimento, capace di regolare il tempo cronologico che procede dalle tracce profonde della geologia ai segni che la civiltà celtica ha lasciato in eredità agli abitanti locali. Egdon Heath, pertanto, con la sua vegetazione dalle tinte scure e la sua vastità, comprende una temporalità ampia. Alternando superstizione e magia pagana in uno scenario sublime, dove l’immagine dell’uccello migratore rimanda ai paesaggi freddi del Nord, Hardy sovverte l’ideale idillico del tropo pastorale, raffigurando la brughiera come un luogo di alienazione e distruzione del sé. Il paesaggio, però, sembra sottrarsi alle novità che l’imperialismo e il capitalismo avevano introdotto in Inghilterra alla fine del XIX secolo, attestandosi come territorio di passaggio che rifiuta le contaminazioni e rende il ritorno a casa traumatico. Se in The Return of the Native l’attraversamento dei confini suggerisce ansia nei confronti del nuovo, Lahiri, che ha tratto ispirazione dal romanziere vittoriano per l’elaborazione del paesaggio naturale, costruisce uno spazio liminale altrettanto ambiguo e problematico che, tuttavia, lascia intravedere possibilità di connessioni extraterritoriali. L’acquitrino melmoso del Bengala, residuo delle bonifiche che gli inglesi condussero nel XVIII secolo, è uno spazio liminale in cui aridità e umidità, evaporazione e pioggia si alternano in modo incessante. Un palinsesto in cui sono incorporati traumi collettivi, come la Partition, e ferite personali, la lowland è un cronotopo di natura eonica che conferisce temporalità allo spazio e spazialità al tempo. Lahiri arricchisce il già stratificato suolo indiano attraverso connessioni rizomatiche con le dune paludose del Rhode Island, lungo la costa nord-orientale dell’Atlantico, dove la seconda parte di The Lowland è ambientata. Il romanzo, in conclusione, riprende da Hardy il tema del ritorno a casa, facendo emergere il valore rigenerativo dell’immaginazione topopoetica, in linea con gli studi sulla nomadologia di Deleuze e Guattari e la poétique de la relation di Glissant. Intersecando la fragilità dell’ambiente con la sofferenza umana, Lahiri dipinge spazi liminali in grado di illuminare non solo il senso di perdita, ma anche il desiderio di contatto e ibridazione.
Thomas Hardy, Jhumpa Lahiri e il linguaggio topopoetico liminale
Monaco, Angelo
2020-01-01
Abstract
L’articolo propone un confronto tra The Return of the Native (1878) di Thomas Hardy e The Lowland (2013) di Jhumpa Lahiri. Nonostante gli autori siano distanti per contesto storico e vicende biografiche, l’analisi intende esplorare il significato profondo dello spazio liminale che in entrambi i romanzi sembra stagliarsi al di sopra dei personaggi. Il confronto tra Egdon Heath, la brughiera del Wessex in cui lo scrittore tardo-vittoriano ambienta la vicenda, e la spianata (lowland) della periferia di Calcutta, attorno alla quale gli eventi del romanzo di Lahiri si intrecciano, testimonia il significato dello spazio liminale come metafora di sconfinamento di confini locali e transnazionali. Luoghi ambivalenti, attraversati da immagini di vita e morte, la brughiera e la spianata sono come caratterizzati da un linguaggio naturale (landguage), che non tutti i personaggi sembrano comprendere. La brughiera si configura come spazio in movimento, capace di regolare il tempo cronologico che procede dalle tracce profonde della geologia ai segni che la civiltà celtica ha lasciato in eredità agli abitanti locali. Egdon Heath, pertanto, con la sua vegetazione dalle tinte scure e la sua vastità, comprende una temporalità ampia. Alternando superstizione e magia pagana in uno scenario sublime, dove l’immagine dell’uccello migratore rimanda ai paesaggi freddi del Nord, Hardy sovverte l’ideale idillico del tropo pastorale, raffigurando la brughiera come un luogo di alienazione e distruzione del sé. Il paesaggio, però, sembra sottrarsi alle novità che l’imperialismo e il capitalismo avevano introdotto in Inghilterra alla fine del XIX secolo, attestandosi come territorio di passaggio che rifiuta le contaminazioni e rende il ritorno a casa traumatico. Se in The Return of the Native l’attraversamento dei confini suggerisce ansia nei confronti del nuovo, Lahiri, che ha tratto ispirazione dal romanziere vittoriano per l’elaborazione del paesaggio naturale, costruisce uno spazio liminale altrettanto ambiguo e problematico che, tuttavia, lascia intravedere possibilità di connessioni extraterritoriali. L’acquitrino melmoso del Bengala, residuo delle bonifiche che gli inglesi condussero nel XVIII secolo, è uno spazio liminale in cui aridità e umidità, evaporazione e pioggia si alternano in modo incessante. Un palinsesto in cui sono incorporati traumi collettivi, come la Partition, e ferite personali, la lowland è un cronotopo di natura eonica che conferisce temporalità allo spazio e spazialità al tempo. Lahiri arricchisce il già stratificato suolo indiano attraverso connessioni rizomatiche con le dune paludose del Rhode Island, lungo la costa nord-orientale dell’Atlantico, dove la seconda parte di The Lowland è ambientata. Il romanzo, in conclusione, riprende da Hardy il tema del ritorno a casa, facendo emergere il valore rigenerativo dell’immaginazione topopoetica, in linea con gli studi sulla nomadologia di Deleuze e Guattari e la poétique de la relation di Glissant. Intersecando la fragilità dell’ambiente con la sofferenza umana, Lahiri dipinge spazi liminali in grado di illuminare non solo il senso di perdita, ma anche il desiderio di contatto e ibridazione.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.