L’abate Paolo Antonio di Tarsia, letterato, erudito e storiografo, nel Prologo dei suoi Historiarum Cupersanensium libri tres − opera storiografica ‘cittadina’, a carattere antiquario, erudito ed enciclopedico, dedicata a Filippo IV di Spagna − partendo dall’assunto ciceroniano della «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», pone la memoria al servizio di un’interpretazione di tipo didattico, in quanto pensa che dalla storia possono trarre lezione non solo i lettori ma, in particolare, i principi per ben governare se stessi e i loro sudditi. Al riguardo, egli fornisce due buoni esempi: il primo è quello di Carlo Magno, da lui reputato modello di tutti gli imperatori, che dalla storia era mosso a compiere azioni virtuose e a scegliere il bene; il secondo exemplum vitae gli serve per affermare che i principi devono amare non solo la storia ma anche gli storici, accogliendoli nel proprio entourage, come, appunto, insegna un famoso condottiero, il veneziano Pietro Loredan, che chiamò infatti presso di sé per la sua vasta erudizione l’insigne storiografo Biondo Flavio da Forlì, che remunerò con grandissimi doni e il conferimento della cittadinanza veneziana. Compiendo un significativo salto logico dal tardo medioevo al suo presente storico, il colto abate Tarsia, esponente di una distinta famiglia cittadina della media nobiltà, che vantava innumerevoli ‘servitori’ della casa Acquaviva negli ‘apparati amministrati dell’università di Conversano e nelle istituzioni religiose locali, si sofferma sul rapporto di estrema fedeltà che lo legava al suo bellicoso signore (di cui egli fu segretario e procuratore), il conte Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il tristemente noto Guercio delle Puglie, esponente di punta di una delle più antiche e illustri famiglie feudali del Mezzogiorno italiano, Titolare di amplissime giurisdizioni esercitate con forza e violenza nei suoi estesi domini e così fiero della plurisecolare storia familiare, da definirsi regolus di Puglia e assumere atteggiamenti tendenzialmente anarchici e sovversivi verso il potere centrale spagnolo o i suoi rappresentanti, l’Acquaviva era un grande aristocratico che, contro la tendenza prevalente del baronaggio meridionale, aveva stabilito un rapporto molto forte, non con Napoli, la capitale del Viceregno, ma con Conversano, un’universitas, un centro provinciale reputato chiave del suo ‘stato’ feudale, sede di una piccola splendida corte, allocata nell’avito castello, che traeva forti stimoli culturali dalla sua attiva e qualificante politica di mecenatismo e di patronage artistico e letterario. Ricostruendo la storia di Conversano, Tarsia ricostruisce la plurisecolare storia dinastica del casato Acquaviva, evidenziando soprattutto gli elementi che egli ritiene i punti di forza del lignaggio. Le costanti storiche più forti di questa famiglia di stirpe militare di origine normanno-sveva appaiono, così, ‘la spada’, ‘i libri’ e ‘la croce’, simboli di tre propensioni, la guerriera, la letteraria e la religiosa, che gli Acquaviva coltivarono per meglio supportare il potere familiare. L’operato del Tarsia in veste di procuratore del Guercio alla corte di Madrid non fu immune da gaffes o da errori di valutazione, perché in fondo era un intellettuale provinciale immesso in una corte, percepita come il centro del mondo (anche per la fitta trama di relazioni e strategie che vi si intessevano per procacciarsi il favore regio), della quale però il nostro abate conosceva poco i meccanismi che regolavano i processi decisionali e non riusciva a cogliere sempre in maniera corretta il mutare o il permanere dei rapporti interni di forza. Così, non furono delle migliori le strategie da lui adottate nei suoi scritti in lingua spagnola per discolpare il suo signore dalle accuse che gli erano state mosse a Napoli e procacciargli, nel contempo, favore regio e ambiti riconoscimenti, a cui, anch’egli ambiva. Le vite del conte e del fedele abate furono accomunate da un medesimo triste destino: furono entrambi ghermiti dalla morte su suolo spagnolo, da soli, a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro. Il primo, dopo complesse vicende che lo avevano condotto a trascorrere un lunghissimo periodo di prigionia a Madrid; riacquistata finalmente la libertà, si spegneva inaspettatamente, sulla via del ritorno in patria, vicino Barcellona; il secondo, dopo essere caduto in disgrazia agli occhi del sovrano ed aver vissuto l’amara esperienza dell’esilio, cioè dell’allontanamento dalla corte, colpito da paralisi, moriva a Madrid disilluso della vita di corte e delle cose del mondo. Questo senso di completo disinganno connota l’ultima opera del Tarsia, la Vida di don Francisco de Quevedo y Villegas, dedicata all’illustre scrittore e poeta spagnolo morto nel 1645, nella cui parabola esistenziale l’abate rinviene il suo doppio: letterato di corte − legato anch’egli a un potente uomo di potere, il duca di Osuna −, dopo alterne fortune e tristi vicissitudini, disilluso delle cose del mondo, morì solo e povero, confidando unicamente in Dio.

Paolo Antonio di Tarsia: tra historia magistra vitae e storia dinastica

Caterina Lavarra
2015-01-01

Abstract

L’abate Paolo Antonio di Tarsia, letterato, erudito e storiografo, nel Prologo dei suoi Historiarum Cupersanensium libri tres − opera storiografica ‘cittadina’, a carattere antiquario, erudito ed enciclopedico, dedicata a Filippo IV di Spagna − partendo dall’assunto ciceroniano della «Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis», pone la memoria al servizio di un’interpretazione di tipo didattico, in quanto pensa che dalla storia possono trarre lezione non solo i lettori ma, in particolare, i principi per ben governare se stessi e i loro sudditi. Al riguardo, egli fornisce due buoni esempi: il primo è quello di Carlo Magno, da lui reputato modello di tutti gli imperatori, che dalla storia era mosso a compiere azioni virtuose e a scegliere il bene; il secondo exemplum vitae gli serve per affermare che i principi devono amare non solo la storia ma anche gli storici, accogliendoli nel proprio entourage, come, appunto, insegna un famoso condottiero, il veneziano Pietro Loredan, che chiamò infatti presso di sé per la sua vasta erudizione l’insigne storiografo Biondo Flavio da Forlì, che remunerò con grandissimi doni e il conferimento della cittadinanza veneziana. Compiendo un significativo salto logico dal tardo medioevo al suo presente storico, il colto abate Tarsia, esponente di una distinta famiglia cittadina della media nobiltà, che vantava innumerevoli ‘servitori’ della casa Acquaviva negli ‘apparati amministrati dell’università di Conversano e nelle istituzioni religiose locali, si sofferma sul rapporto di estrema fedeltà che lo legava al suo bellicoso signore (di cui egli fu segretario e procuratore), il conte Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona, il tristemente noto Guercio delle Puglie, esponente di punta di una delle più antiche e illustri famiglie feudali del Mezzogiorno italiano, Titolare di amplissime giurisdizioni esercitate con forza e violenza nei suoi estesi domini e così fiero della plurisecolare storia familiare, da definirsi regolus di Puglia e assumere atteggiamenti tendenzialmente anarchici e sovversivi verso il potere centrale spagnolo o i suoi rappresentanti, l’Acquaviva era un grande aristocratico che, contro la tendenza prevalente del baronaggio meridionale, aveva stabilito un rapporto molto forte, non con Napoli, la capitale del Viceregno, ma con Conversano, un’universitas, un centro provinciale reputato chiave del suo ‘stato’ feudale, sede di una piccola splendida corte, allocata nell’avito castello, che traeva forti stimoli culturali dalla sua attiva e qualificante politica di mecenatismo e di patronage artistico e letterario. Ricostruendo la storia di Conversano, Tarsia ricostruisce la plurisecolare storia dinastica del casato Acquaviva, evidenziando soprattutto gli elementi che egli ritiene i punti di forza del lignaggio. Le costanti storiche più forti di questa famiglia di stirpe militare di origine normanno-sveva appaiono, così, ‘la spada’, ‘i libri’ e ‘la croce’, simboli di tre propensioni, la guerriera, la letteraria e la religiosa, che gli Acquaviva coltivarono per meglio supportare il potere familiare. L’operato del Tarsia in veste di procuratore del Guercio alla corte di Madrid non fu immune da gaffes o da errori di valutazione, perché in fondo era un intellettuale provinciale immesso in una corte, percepita come il centro del mondo (anche per la fitta trama di relazioni e strategie che vi si intessevano per procacciarsi il favore regio), della quale però il nostro abate conosceva poco i meccanismi che regolavano i processi decisionali e non riusciva a cogliere sempre in maniera corretta il mutare o il permanere dei rapporti interni di forza. Così, non furono delle migliori le strategie da lui adottate nei suoi scritti in lingua spagnola per discolpare il suo signore dalle accuse che gli erano state mosse a Napoli e procacciargli, nel contempo, favore regio e ambiti riconoscimenti, a cui, anch’egli ambiva. Le vite del conte e del fedele abate furono accomunate da un medesimo triste destino: furono entrambi ghermiti dalla morte su suolo spagnolo, da soli, a distanza di alcuni mesi l’uno dall’altro. Il primo, dopo complesse vicende che lo avevano condotto a trascorrere un lunghissimo periodo di prigionia a Madrid; riacquistata finalmente la libertà, si spegneva inaspettatamente, sulla via del ritorno in patria, vicino Barcellona; il secondo, dopo essere caduto in disgrazia agli occhi del sovrano ed aver vissuto l’amara esperienza dell’esilio, cioè dell’allontanamento dalla corte, colpito da paralisi, moriva a Madrid disilluso della vita di corte e delle cose del mondo. Questo senso di completo disinganno connota l’ultima opera del Tarsia, la Vida di don Francisco de Quevedo y Villegas, dedicata all’illustre scrittore e poeta spagnolo morto nel 1645, nella cui parabola esistenziale l’abate rinviene il suo doppio: letterato di corte − legato anch’egli a un potente uomo di potere, il duca di Osuna −, dopo alterne fortune e tristi vicissitudini, disilluso delle cose del mondo, morì solo e povero, confidando unicamente in Dio.
2015
9788867661169
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