L’esigua e poco recente letteratura scientifica sul tema insiste sull’inadeguatezza dell’istituzione penitenziaria a rendere conto delle esigenze e, in generale, delle specificità femminili. Un modello istituzionale creato da e per uomini in ordine al contenimento di attitudini tendenzialmente maschili quali l’aggressività e la violenza e che nega e mortifica la natura affettiva, emozionale, relazionale dell’universo femminile. Un assunto che pur avendo il merito di sottolineare l’insufficiente attenzione per le peculiari esigenze fisiche, psicologiche ed igienico-sanitarie femminili, nonché per i diversi modi adattamento, non considera la generale inadeguatezza dell’istituzione penitenziaria, indipendentemente dal genere dei detenuti, nello svolgere le funzioni ad esso attribuite e nel tutelare la dignità ed i diritti dei ristretti. La riforma penitenziaria del 1975, che pure aveva posto definitivamente fine al modello paternalistico ed autoritario prima vigente negli istituti femminili, ha generato un sistema carcerario la cui uniformità applicativa per entrambi i generi trova singole e giustificate eccezioni nelle norme dettate a tutela della gravidanza e della maternità. Non si tratta del problema dell’uguaglianza, normalmente alla base delle rivendicazioni femminili, ma al contrario di riconoscere una diversità ignorata in virtù della visibilità quasi nulla delle detenute, le quali vivono diversamente il tempo in carcere, utilizzando modi di adattamento peculiari, cercando di tessere relazioni di tipo empatico ed affettivo, spesso somatizzando le deprivazioni (amenorrea, stipsi, ecc.) o, a causa di queste, manifestando disturbi d’ansia o depressivi, questi ultimi tipici soprattutto delle madri costrette spesso a delegare la gestione dei propri figli. Solo di recente l’Amministrazione Penitenziaria ha elaborato uno schema di regolamento interno per le sezioni femminili, con il quale viene sollevata l’esigenza di un lavoro di sensibilizzazione finalizzato all’attivazione ed alla costruzione di un impianto concettuale, metodologico e di intervento politico e sociale che riconosca e valorizzi la differenza di genere, così dando piena attuazione alle norme, nazionali ed internazionali, che tutelano i diritti delle persone ristrette. In sintesi, il penitenziario è probabilmente un modello non femminile, in quanto non adeguato alle specifiche esigenze delle detenute, ma neanche maschile, in quanto sin dalla sua elaborazione moderna ha dimostrato la propria inadeguatezza tanto a rendere possibile la rieducazione come auspicato nel XX secolo, quanto a garantire livelli minimi di dignità. Indubbiamente le detenute presentano esigenze e bisogni specifici rispetto agli uomini, rispetto ai quali ancor di più soffrono l’inadeguatezza del carcere, soprattutto quando madri o gestanti. La brevità delle pene generalmente comminate nei confronti delle donne, nella pressoché certificata incapacità del carcere di rispettare il dettato costituzionale che attribuisce alla pena una funzione rieducativa, deve spingere nella direzione di soluzioni alternative. Soluzioni nell’ambito delle quali elaborare percorsi trattamentali consoni alle esigenze femminili, soprattutto di tutela della relazione madre-bambino nel contesto di un ambiente adeguato, quale non è, certamente, il carcere. Altre strade, percorse con soddisfacenti risultati in numerosi Paesi, come nel caso, ad esempio, della mediazione penale, meriterebbero una maggiore attenzione da parte del legislatore e, prima ancora, dalla ricerca sociale. Quest’ultima, infatti, deve anticipare le scelte del legislatore, tornando a studiare da vicino la detenzione femminile.

Il carcere delle donne: un'istituzione maschile?

MASSARO, PIERLUCA
2011-01-01

Abstract

L’esigua e poco recente letteratura scientifica sul tema insiste sull’inadeguatezza dell’istituzione penitenziaria a rendere conto delle esigenze e, in generale, delle specificità femminili. Un modello istituzionale creato da e per uomini in ordine al contenimento di attitudini tendenzialmente maschili quali l’aggressività e la violenza e che nega e mortifica la natura affettiva, emozionale, relazionale dell’universo femminile. Un assunto che pur avendo il merito di sottolineare l’insufficiente attenzione per le peculiari esigenze fisiche, psicologiche ed igienico-sanitarie femminili, nonché per i diversi modi adattamento, non considera la generale inadeguatezza dell’istituzione penitenziaria, indipendentemente dal genere dei detenuti, nello svolgere le funzioni ad esso attribuite e nel tutelare la dignità ed i diritti dei ristretti. La riforma penitenziaria del 1975, che pure aveva posto definitivamente fine al modello paternalistico ed autoritario prima vigente negli istituti femminili, ha generato un sistema carcerario la cui uniformità applicativa per entrambi i generi trova singole e giustificate eccezioni nelle norme dettate a tutela della gravidanza e della maternità. Non si tratta del problema dell’uguaglianza, normalmente alla base delle rivendicazioni femminili, ma al contrario di riconoscere una diversità ignorata in virtù della visibilità quasi nulla delle detenute, le quali vivono diversamente il tempo in carcere, utilizzando modi di adattamento peculiari, cercando di tessere relazioni di tipo empatico ed affettivo, spesso somatizzando le deprivazioni (amenorrea, stipsi, ecc.) o, a causa di queste, manifestando disturbi d’ansia o depressivi, questi ultimi tipici soprattutto delle madri costrette spesso a delegare la gestione dei propri figli. Solo di recente l’Amministrazione Penitenziaria ha elaborato uno schema di regolamento interno per le sezioni femminili, con il quale viene sollevata l’esigenza di un lavoro di sensibilizzazione finalizzato all’attivazione ed alla costruzione di un impianto concettuale, metodologico e di intervento politico e sociale che riconosca e valorizzi la differenza di genere, così dando piena attuazione alle norme, nazionali ed internazionali, che tutelano i diritti delle persone ristrette. In sintesi, il penitenziario è probabilmente un modello non femminile, in quanto non adeguato alle specifiche esigenze delle detenute, ma neanche maschile, in quanto sin dalla sua elaborazione moderna ha dimostrato la propria inadeguatezza tanto a rendere possibile la rieducazione come auspicato nel XX secolo, quanto a garantire livelli minimi di dignità. Indubbiamente le detenute presentano esigenze e bisogni specifici rispetto agli uomini, rispetto ai quali ancor di più soffrono l’inadeguatezza del carcere, soprattutto quando madri o gestanti. La brevità delle pene generalmente comminate nei confronti delle donne, nella pressoché certificata incapacità del carcere di rispettare il dettato costituzionale che attribuisce alla pena una funzione rieducativa, deve spingere nella direzione di soluzioni alternative. Soluzioni nell’ambito delle quali elaborare percorsi trattamentali consoni alle esigenze femminili, soprattutto di tutela della relazione madre-bambino nel contesto di un ambiente adeguato, quale non è, certamente, il carcere. Altre strade, percorse con soddisfacenti risultati in numerosi Paesi, come nel caso, ad esempio, della mediazione penale, meriterebbero una maggiore attenzione da parte del legislatore e, prima ancora, dalla ricerca sociale. Quest’ultima, infatti, deve anticipare le scelte del legislatore, tornando a studiare da vicino la detenzione femminile.
2011
9788856845198
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