La filosofia del linguaggio di Michel Foucault ha diversi punti di articolazione. Uno di questi coincide con l’attenzione che Foucault ha riservato in alcune sue ricerche molto conosciute sul quello che lui chiamò “il potere pastorale" ovvero la pratica della “confessione”, una confessione estorta in senso cattolico cristiano, ma non solo, un confessione che si gioca al limite di un parlare di cose di cui in realtà non si ha la possibilità di parlare, il tutto al servizio di un biopotere che vuole sapere come si comportano le persone che vuole governare. Nella filosofia foucaultiana, d’altra parte, è tutto il potere che parla nelle sue diverse forme, così come gli rispondono i diversi punti che gli resistono. Il potere della parola è un potere di “assoggettamento”, è un potere semiotico che contribuisce a costruire la stessa figura del “soggetto”, un soggetto che è della politica come della conoscenza. Il soggetto descritto da Foucault è un soggetto “osservato” che non riesce a guardare chi lo guarda: la sua semiosi è inscritta nella biopolitica del potere che lo governa, un potere che sfugge offrendosi allo sguardo solo per sfumature che lo fanno apparire alla stregua di un “simulacro”. I linguaggi del potere sono quelli della demografia, della statistica, dell’economia politica, tutti al servizio di un governo biopolitico delle vite. I linguaggi del potere sono “giochi linguistici” che dicono che cosa sia vero e cosa sia falso. Il linguaggi di chi ha il potere producono continui “effetti di verità” a cui bisogna sottostare, effetti di verità che hanno una natura prevalentemente economica, effetti di verità che coincidono con i momenti estroflessione, di manifestazione del potere e di chi gli resiste contraddicendolo. Il diritto, la morale, le scienze pedagogiche e quelle militari sono altrettanti “ordini del discorso” che parlano le lingue che mettono ordine nelle diverse società che amministrano. Non ci sono margini per una filosofia della comunicazione alla Habermas: tutto si gioca nei diversi giochi linguistici che vanno per la maggiore pragmatica. L’ultimo Foucault è altrettanto attento ad un’analisi genealogica delle possibili “controcondotte” capaci di sviluppare una “cura di sé” alternativa a quella imposta. Si tratta di scelte di nuove “stoiche” e sempre in un certo qual modo “illuministe” di chi sa mettesi “dehors” (Blanchot) rispetto alle parole del potere. Rispetto a chi ci dice, dunque, che cosa sia vero, bisogna avere “il coraggio (greco classico) della verità”, bisogna portare fino alle estreme conseguenze filosofiche e politiche la possibilità di “dire vrai”. Una giusta “analitica della verità” dovrà, allora, muovere per Michel Foucault da uno studio attento di matrice semiotica, che consideri non solo quello che si dice, ma anche quanto si tace e questo fin dall’inizio della sua ricerca con “Storia della follia nell’età classica” fino ai suoi ultimi studi dedicati alle “pratiche parresiastiche” di matrice greca classica. Qui un punto interessante ovvero che certe cose potranno essere dette, ma non potranno essere pensante, quasi si desse una possibilità espressiva che non sia legata ad un processo cognitivo: un fenomeno esistenziale paradossale ed in questa paradossalità, fuori degli ordini del discorso possibili, si trova la conferma di un’idea di Foucault ovvero che la letteratura possa rappresentare un’alternativa rappresentativa possibile rispetto a quelle che sono le ragioni più profonde dell’uomo. Ma la soluzione letteraria non ha presa politica e rispetto ad essa Foucault negli anni Settanta e fino alla fine della sua vita ha cercato una alternativa che fosse una pratica politica possibile.

Sul problema del linguaggio nella filosofia di Michel Foucault. Linee ed appunti per una ricerca.

Filippo Silvestri
2018-01-01

Abstract

La filosofia del linguaggio di Michel Foucault ha diversi punti di articolazione. Uno di questi coincide con l’attenzione che Foucault ha riservato in alcune sue ricerche molto conosciute sul quello che lui chiamò “il potere pastorale" ovvero la pratica della “confessione”, una confessione estorta in senso cattolico cristiano, ma non solo, un confessione che si gioca al limite di un parlare di cose di cui in realtà non si ha la possibilità di parlare, il tutto al servizio di un biopotere che vuole sapere come si comportano le persone che vuole governare. Nella filosofia foucaultiana, d’altra parte, è tutto il potere che parla nelle sue diverse forme, così come gli rispondono i diversi punti che gli resistono. Il potere della parola è un potere di “assoggettamento”, è un potere semiotico che contribuisce a costruire la stessa figura del “soggetto”, un soggetto che è della politica come della conoscenza. Il soggetto descritto da Foucault è un soggetto “osservato” che non riesce a guardare chi lo guarda: la sua semiosi è inscritta nella biopolitica del potere che lo governa, un potere che sfugge offrendosi allo sguardo solo per sfumature che lo fanno apparire alla stregua di un “simulacro”. I linguaggi del potere sono quelli della demografia, della statistica, dell’economia politica, tutti al servizio di un governo biopolitico delle vite. I linguaggi del potere sono “giochi linguistici” che dicono che cosa sia vero e cosa sia falso. Il linguaggi di chi ha il potere producono continui “effetti di verità” a cui bisogna sottostare, effetti di verità che hanno una natura prevalentemente economica, effetti di verità che coincidono con i momenti estroflessione, di manifestazione del potere e di chi gli resiste contraddicendolo. Il diritto, la morale, le scienze pedagogiche e quelle militari sono altrettanti “ordini del discorso” che parlano le lingue che mettono ordine nelle diverse società che amministrano. Non ci sono margini per una filosofia della comunicazione alla Habermas: tutto si gioca nei diversi giochi linguistici che vanno per la maggiore pragmatica. L’ultimo Foucault è altrettanto attento ad un’analisi genealogica delle possibili “controcondotte” capaci di sviluppare una “cura di sé” alternativa a quella imposta. Si tratta di scelte di nuove “stoiche” e sempre in un certo qual modo “illuministe” di chi sa mettesi “dehors” (Blanchot) rispetto alle parole del potere. Rispetto a chi ci dice, dunque, che cosa sia vero, bisogna avere “il coraggio (greco classico) della verità”, bisogna portare fino alle estreme conseguenze filosofiche e politiche la possibilità di “dire vrai”. Una giusta “analitica della verità” dovrà, allora, muovere per Michel Foucault da uno studio attento di matrice semiotica, che consideri non solo quello che si dice, ma anche quanto si tace e questo fin dall’inizio della sua ricerca con “Storia della follia nell’età classica” fino ai suoi ultimi studi dedicati alle “pratiche parresiastiche” di matrice greca classica. Qui un punto interessante ovvero che certe cose potranno essere dette, ma non potranno essere pensante, quasi si desse una possibilità espressiva che non sia legata ad un processo cognitivo: un fenomeno esistenziale paradossale ed in questa paradossalità, fuori degli ordini del discorso possibili, si trova la conferma di un’idea di Foucault ovvero che la letteratura possa rappresentare un’alternativa rappresentativa possibile rispetto a quelle che sono le ragioni più profonde dell’uomo. Ma la soluzione letteraria non ha presa politica e rispetto ad essa Foucault negli anni Settanta e fino alla fine della sua vita ha cercato una alternativa che fosse una pratica politica possibile.
2018
978-88-85426-03-0
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/219946
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