Il mar Mediterraneo, come i deserti che lo precedono in Africa, sono spazi “lisci”, nell’accezione di Deleuze e Guattari, mai “striati” da una possibile geometria che consenta un senso dell’orientamento per chi li attraversa in barca o a piedi. Il mondo di coloro che sono costretti a scappare, attraverso le acque del Mediterraneo sui barconi che li trasportano, è un mondo polifonico fatto di musiche e canti per “contrappunti” (Glissant), che non risuonano comprensibili negli ordini del discorso europei che stentano ad accoglierli. Se si prova in senso critico benjaminiano, ed ispirandosi ad alcuni motivi fondamentali della ricerca gramsciana, allora la stessa Europa può non apparire più come il centro geografico di una vecchia cartografia, ma come il punto di approdo di un mondo molto più complesso, in cui la stessa Europa non è che una tra le provincie. In questa direzione l’idea di “arcipelago” di Cacciari offre un suggerimento in direzione di un dialogo possibile tra le civiltà che non sia solo di facciata, ma che invece risponda ad una disposizione naturale dei paesi e degli uomini e le donne che li abitano. La musica e la poesia rappresentano da questo punto di vista due generi della semiosi possibile delle cose in grado di rappresentare questa polifonia intrinseca del Mediterraneo. La realtà contemporanea è completamente diversa: la mancata conta degli affondamenti e degli annegamenti va in insieme ai molti che viaggiano senza documenti che possano dire chi sono. A tutto questo movimento, che è vitale, di chi parte perché cerca una vita migliore, l’Occidente contrappone un linguaggio economico del calcolo astratto dei profitti. Qui possono valere come criteri di lettura, in una controluce filosofica, due diverse categorie che si devono a Derrida: il “monolinguismo dell’altro” che l’Europa impone a chi le appare estraneo, il “mal d’archivio” di cui l’Europa soffre, perché non sa registrare queste presenze umane in transito, che la attraversano e di cui non sa ascoltare la “differance”, la “differenza” alla Deleuze, una differenza che parla per echi, che non andrebbero ordinati nelle grammatiche politiche del governo quotidiano. Il mare, il deserto inghiottono tutte le scritture, tutte le parole che vorrebbero documentare un’esperienza in movimento, che proprio perché in movimento non può essere messa a fuoco, non può essere fotografata. Il mondo occidentale, l’Europa in particolare, rispondono “tacendo”, nascondendo una storia che non è necessariamente cristiana: il Mediterraneo in realtà ha avuto da sempre “molte voci”. Un certo barocco, gli arabeschi sono segni tra gli altri che non si possono ridurre alle geometrie esatte delle lingue europee. L’acqua resta una materia sulla quale non è possibile scrivere, su cui non è possibile tracciare confini. Il velo delle donne musulmane e non solo, d’altra parte, non lascia vedere, non consente di vedere quei lineamenti che altrimenti verrebbero utilizzati per identificarle. In ogni caso dalle mappe bisognerebbe ritornare ai territori, ai mari che attraversiamo, dalla carta di nuovo alla terra, all’acqua che navighiamo. Il mare, che stentiamo ad abitare, non consente in ogni caso l’affondare delle radici di un albero della conoscenza che non sappia diventare anfibio per adattarsi all’ambiente che pretende di conoscere.

Ipotesi epistemologiche per un nuovo ordine del discorso mediterraneo

Filippo Silvestri
2017-01-01

Abstract

Il mar Mediterraneo, come i deserti che lo precedono in Africa, sono spazi “lisci”, nell’accezione di Deleuze e Guattari, mai “striati” da una possibile geometria che consenta un senso dell’orientamento per chi li attraversa in barca o a piedi. Il mondo di coloro che sono costretti a scappare, attraverso le acque del Mediterraneo sui barconi che li trasportano, è un mondo polifonico fatto di musiche e canti per “contrappunti” (Glissant), che non risuonano comprensibili negli ordini del discorso europei che stentano ad accoglierli. Se si prova in senso critico benjaminiano, ed ispirandosi ad alcuni motivi fondamentali della ricerca gramsciana, allora la stessa Europa può non apparire più come il centro geografico di una vecchia cartografia, ma come il punto di approdo di un mondo molto più complesso, in cui la stessa Europa non è che una tra le provincie. In questa direzione l’idea di “arcipelago” di Cacciari offre un suggerimento in direzione di un dialogo possibile tra le civiltà che non sia solo di facciata, ma che invece risponda ad una disposizione naturale dei paesi e degli uomini e le donne che li abitano. La musica e la poesia rappresentano da questo punto di vista due generi della semiosi possibile delle cose in grado di rappresentare questa polifonia intrinseca del Mediterraneo. La realtà contemporanea è completamente diversa: la mancata conta degli affondamenti e degli annegamenti va in insieme ai molti che viaggiano senza documenti che possano dire chi sono. A tutto questo movimento, che è vitale, di chi parte perché cerca una vita migliore, l’Occidente contrappone un linguaggio economico del calcolo astratto dei profitti. Qui possono valere come criteri di lettura, in una controluce filosofica, due diverse categorie che si devono a Derrida: il “monolinguismo dell’altro” che l’Europa impone a chi le appare estraneo, il “mal d’archivio” di cui l’Europa soffre, perché non sa registrare queste presenze umane in transito, che la attraversano e di cui non sa ascoltare la “differance”, la “differenza” alla Deleuze, una differenza che parla per echi, che non andrebbero ordinati nelle grammatiche politiche del governo quotidiano. Il mare, il deserto inghiottono tutte le scritture, tutte le parole che vorrebbero documentare un’esperienza in movimento, che proprio perché in movimento non può essere messa a fuoco, non può essere fotografata. Il mondo occidentale, l’Europa in particolare, rispondono “tacendo”, nascondendo una storia che non è necessariamente cristiana: il Mediterraneo in realtà ha avuto da sempre “molte voci”. Un certo barocco, gli arabeschi sono segni tra gli altri che non si possono ridurre alle geometrie esatte delle lingue europee. L’acqua resta una materia sulla quale non è possibile scrivere, su cui non è possibile tracciare confini. Il velo delle donne musulmane e non solo, d’altra parte, non lascia vedere, non consente di vedere quei lineamenti che altrimenti verrebbero utilizzati per identificarle. In ogni caso dalle mappe bisognerebbe ritornare ai territori, ai mari che attraversiamo, dalla carta di nuovo alla terra, all’acqua che navighiamo. Il mare, che stentiamo ad abitare, non consente in ogni caso l’affondare delle radici di un albero della conoscenza che non sappia diventare anfibio per adattarsi all’ambiente che pretende di conoscere.
2017
978-88-6194-303-2
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/218070
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