La traduzione e in particolare quella che Basso definisce “traduzione intersemiotica associativa” rappresenta un ponte, che mette in rapporto testi, linguaggi e culture apparentemente lontane (Godard 2000: 46) e che può comportare un fecondo processo di contaminazione e ri-definizione degli stessi. Il periodo a cavallo tra anni Venti e anni Trenta – oltre a registrare l’ incontro tra Joyce e Morean – rappresenta anche il momento in cui jazz assume una posizione di primo piano in ambito internazionale. Il lavoro del poeta caraibico Kamau Brathwaite può essere pensato, in questo senso, come tentativo di tradurre la discorsività propria del jazz in forma letteraria. Nel presente contributo viene offerta un’indagine dell’interesse di Brathwaite nei confronti del linguaggio musicale e in particolare di espressioni afro-americane ed afro-caraibiche quali il jazz, il calypso ed il reggae, dimostrando come la musica diventi per l’ autore caraibico vero e proprio principio organizzativo della materia poetica, attraverso l’ impiego, come si è detto, di componenti jazzistiche quali le blue-notes e i ritmi sincopati. Del resto, per Brathwaite, nel suono della tromba o del sax è possibile percepire l ‘urlo che proviene dal cuore dell’ uomo soggiogato dal peso del potere coloniale. In questo senso, il jazz rappresenta per il poeta anche un modello attraverso cui pensare la società caraibica, una forma musicale che permette all’ ascoltatore di percepire la voce di un individuo all’ interno di una comunità, ossia come parte di un gruppo. Jazz e improvvisazione, va detto, non sono sinonimi. Lo sa bene David Sylvian, poeta e compositore britannico, che dopo un primo periodo di ripensamento della forma canzone attraverso la lezione jazzistica di autori quali Kenny Wheeler e David Torn (in album quali Brilliant Trees del 1984 e Secrets of the Beehive del 1987) decide di porre a partire dalla fine degli anni Novanta l’ improvvisazione, in quanto pratica non idiomatica al centro della sua produzione producendo capolavori quali Blemish (2003) e Malafon (2009) in cui la parola non fa che rispondere a processi improvvisativi, articolando – per utilizzare un’ espressione pensata da Rob Young in rapporto ad alcune sperimentazioni di J. Brown – a “force of hypnotic persuasion, of seductive, not dictatorial command” (Young 2013: 25) – in grado di dare corpo a paesaggi sonori affascinanti, a tratti estremamente complessi e sfuggenti
Jazz e improvvisazione nella poesia contemporanea in inglese da Kamau Brathwaite a David Sylvian
Martino, Pierpaolo
2015-01-01
Abstract
La traduzione e in particolare quella che Basso definisce “traduzione intersemiotica associativa” rappresenta un ponte, che mette in rapporto testi, linguaggi e culture apparentemente lontane (Godard 2000: 46) e che può comportare un fecondo processo di contaminazione e ri-definizione degli stessi. Il periodo a cavallo tra anni Venti e anni Trenta – oltre a registrare l’ incontro tra Joyce e Morean – rappresenta anche il momento in cui jazz assume una posizione di primo piano in ambito internazionale. Il lavoro del poeta caraibico Kamau Brathwaite può essere pensato, in questo senso, come tentativo di tradurre la discorsività propria del jazz in forma letteraria. Nel presente contributo viene offerta un’indagine dell’interesse di Brathwaite nei confronti del linguaggio musicale e in particolare di espressioni afro-americane ed afro-caraibiche quali il jazz, il calypso ed il reggae, dimostrando come la musica diventi per l’ autore caraibico vero e proprio principio organizzativo della materia poetica, attraverso l’ impiego, come si è detto, di componenti jazzistiche quali le blue-notes e i ritmi sincopati. Del resto, per Brathwaite, nel suono della tromba o del sax è possibile percepire l ‘urlo che proviene dal cuore dell’ uomo soggiogato dal peso del potere coloniale. In questo senso, il jazz rappresenta per il poeta anche un modello attraverso cui pensare la società caraibica, una forma musicale che permette all’ ascoltatore di percepire la voce di un individuo all’ interno di una comunità, ossia come parte di un gruppo. Jazz e improvvisazione, va detto, non sono sinonimi. Lo sa bene David Sylvian, poeta e compositore britannico, che dopo un primo periodo di ripensamento della forma canzone attraverso la lezione jazzistica di autori quali Kenny Wheeler e David Torn (in album quali Brilliant Trees del 1984 e Secrets of the Beehive del 1987) decide di porre a partire dalla fine degli anni Novanta l’ improvvisazione, in quanto pratica non idiomatica al centro della sua produzione producendo capolavori quali Blemish (2003) e Malafon (2009) in cui la parola non fa che rispondere a processi improvvisativi, articolando – per utilizzare un’ espressione pensata da Rob Young in rapporto ad alcune sperimentazioni di J. Brown – a “force of hypnotic persuasion, of seductive, not dictatorial command” (Young 2013: 25) – in grado di dare corpo a paesaggi sonori affascinanti, a tratti estremamente complessi e sfuggentiFile | Dimensione | Formato | |
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