L’indagine sulla forma del contratto può essere condotta seguendo diversi itinerari, giacché il concetto si presta a designare sia, in generale, l’aspetto dell’atto (e di ogni atto) che si contrappone al suo «contenuto», sia invece un requisito occasionalmente imposto circa le modalità attraverso le quali l’atto deve essere compiuto o circa il mezzo espressivo dal quale esso deve «risultare». La prima accezione rimanda, nell’inquadramento della nozione di forma, al paradigma generale dell’atto giuridico, e vi ravvisa un elemento essenziale e costitutivo di quel paradigma: conseguentemente, nelle norme che richiedono una forma determinata per il compimento dell’atto si configurerebbe la disciplina particolare di un profilo tuttavia generale e sempre presente nella struttura di esso La seconda accezione circoscrive, invece, il problema della forma (ed il relativo concetto) ai casi nei quali l’ordinamento prescrive l’adozione di una determinata modalità (di solito la scrittura, talora l’atto pubblico) nel compimento dell’atto. L’impiego della nozione di forma, secondo quest’ultima prospettiva, dovrebbe perciò essere riservato all’esame dei casi in cui viene in questione l’esigenza o meno di tale modalità, cioè il carattere «formale» o «amorfo» dell’atto. Orbene, benché l’opinione corrente sia adusa a trascorrere senza soluzione di continuità dall’una all’altra delle due descritte accezioni del concetto di «forma», esse dovrebbero rimanere distinte, non solo per la loro diversa consistenza teorica, ma anche perché ciascuna di essere richiamata un diverso novero di questioni che non è il caso di confondere. Quando si prende in considerazione la forma quale «esternazione» dell’atto, vale a dire quale elemento mercè il quale questo assume storica esistenza e si presta ad essere percepito e riconosciuto all’esterno, si riconduce il concetto di forma alla dommatica della dichiarazione o dei fatti e com¬portamenti solitamente paragonati alla dichiarazione quanto agli effetti prodotti4. E non a caso, secondo tale prospettiva, il dibattito teorico sulla forma ha riprodotto fedelmente le dispute intorno alla concezione generale del «negozio» ed al rapporto tra volontà e dichiarazione: la forma fu intesa come «veicolo» o«recipiente» della volontà da chi propugnò la concezione «vo¬lontaristica» del negozio, mentre secondo la teoria «precettiva» essa esprimerebbe null’altro che il momento esteriore del negozio, che lo rende riconoscibile e rilevante socialmente e giuridicamente, fino a immedesimarsi con l’atto stesso nella concezione del negozio come autoregolamento di privati interessi. Ora, seguendo un ordine di idee siffatto, il concetto di forma si presta ad essere impiegato nell’esame di questioni tutt’affatto diverse da quelle alle quali presiede la diversa nozione di forma quale particolare requisito del contratto: la nozione, cioè, delineata nell’art. 1325, n. 4) del c.c. e nelle altre norme che prescrivono l’adozione di forme determinate per determinati contratti o per singole clausole. Nel linguaggio del codice civile (ma anche delle leggi speciali che – assai frequentemente – contengono prescrizioni formali) il problema della forma non costituisce un capitolo della generale questione relativa alla dichiarazione, ma ha una sua propria autonomia. Esso riguarda non tanto i pre¬supposti della rilevanza dell’atto, quanto piuttosto una condizione di validità, o più in generale il trattamento giuridico del «patto» (nei contratti) o del regolamento dettato dal dichiarante (negli atti unilaterali). Se si è avvertiti della distinzione tra le due accezioni del concetto sopra tratteggiate, riesce agevole anzitutto evitare di confondere il problema della forma quale requisito del contratto, e la relativa disciplina, con altri problemi e questioni che rimangono diversi e distinti. Così, non appartiene al problema della forma contrattuale quello del valore da attribuirsi al «silenzio», o della configurabilità di dichiarazioni o di negozi «taciti». Né appartiene al problema della forma (come dovrebbe essere ancor più chiaro) la questione dell’esigenza di una volontà espressa per il compimento di taluni negozi (si veda, ad es., l’art. 1937 c.c.). Per le medesime ragioni, vanno tenute distinte dal problema della forma talune norme attinenti alla tutela della trasparenza nei contratti: anche in tal caso si tratta, infatti, di norme che si preoccupano di dettare direttive circa il grado di adeguatezza delle modalità espressive usate rispetto all’esigenza pratica dell’effettività del consenso, e non di imporre l’adozione di un determinato mezzo formale.

La forma

DI GIOVANNI, Francesco
2006-01-01

Abstract

L’indagine sulla forma del contratto può essere condotta seguendo diversi itinerari, giacché il concetto si presta a designare sia, in generale, l’aspetto dell’atto (e di ogni atto) che si contrappone al suo «contenuto», sia invece un requisito occasionalmente imposto circa le modalità attraverso le quali l’atto deve essere compiuto o circa il mezzo espressivo dal quale esso deve «risultare». La prima accezione rimanda, nell’inquadramento della nozione di forma, al paradigma generale dell’atto giuridico, e vi ravvisa un elemento essenziale e costitutivo di quel paradigma: conseguentemente, nelle norme che richiedono una forma determinata per il compimento dell’atto si configurerebbe la disciplina particolare di un profilo tuttavia generale e sempre presente nella struttura di esso La seconda accezione circoscrive, invece, il problema della forma (ed il relativo concetto) ai casi nei quali l’ordinamento prescrive l’adozione di una determinata modalità (di solito la scrittura, talora l’atto pubblico) nel compimento dell’atto. L’impiego della nozione di forma, secondo quest’ultima prospettiva, dovrebbe perciò essere riservato all’esame dei casi in cui viene in questione l’esigenza o meno di tale modalità, cioè il carattere «formale» o «amorfo» dell’atto. Orbene, benché l’opinione corrente sia adusa a trascorrere senza soluzione di continuità dall’una all’altra delle due descritte accezioni del concetto di «forma», esse dovrebbero rimanere distinte, non solo per la loro diversa consistenza teorica, ma anche perché ciascuna di essere richiamata un diverso novero di questioni che non è il caso di confondere. Quando si prende in considerazione la forma quale «esternazione» dell’atto, vale a dire quale elemento mercè il quale questo assume storica esistenza e si presta ad essere percepito e riconosciuto all’esterno, si riconduce il concetto di forma alla dommatica della dichiarazione o dei fatti e com¬portamenti solitamente paragonati alla dichiarazione quanto agli effetti prodotti4. E non a caso, secondo tale prospettiva, il dibattito teorico sulla forma ha riprodotto fedelmente le dispute intorno alla concezione generale del «negozio» ed al rapporto tra volontà e dichiarazione: la forma fu intesa come «veicolo» o«recipiente» della volontà da chi propugnò la concezione «vo¬lontaristica» del negozio, mentre secondo la teoria «precettiva» essa esprimerebbe null’altro che il momento esteriore del negozio, che lo rende riconoscibile e rilevante socialmente e giuridicamente, fino a immedesimarsi con l’atto stesso nella concezione del negozio come autoregolamento di privati interessi. Ora, seguendo un ordine di idee siffatto, il concetto di forma si presta ad essere impiegato nell’esame di questioni tutt’affatto diverse da quelle alle quali presiede la diversa nozione di forma quale particolare requisito del contratto: la nozione, cioè, delineata nell’art. 1325, n. 4) del c.c. e nelle altre norme che prescrivono l’adozione di forme determinate per determinati contratti o per singole clausole. Nel linguaggio del codice civile (ma anche delle leggi speciali che – assai frequentemente – contengono prescrizioni formali) il problema della forma non costituisce un capitolo della generale questione relativa alla dichiarazione, ma ha una sua propria autonomia. Esso riguarda non tanto i pre¬supposti della rilevanza dell’atto, quanto piuttosto una condizione di validità, o più in generale il trattamento giuridico del «patto» (nei contratti) o del regolamento dettato dal dichiarante (negli atti unilaterali). Se si è avvertiti della distinzione tra le due accezioni del concetto sopra tratteggiate, riesce agevole anzitutto evitare di confondere il problema della forma quale requisito del contratto, e la relativa disciplina, con altri problemi e questioni che rimangono diversi e distinti. Così, non appartiene al problema della forma contrattuale quello del valore da attribuirsi al «silenzio», o della configurabilità di dichiarazioni o di negozi «taciti». Né appartiene al problema della forma (come dovrebbe essere ancor più chiaro) la questione dell’esigenza di una volontà espressa per il compimento di taluni negozi (si veda, ad es., l’art. 1937 c.c.). Per le medesime ragioni, vanno tenute distinte dal problema della forma talune norme attinenti alla tutela della trasparenza nei contratti: anche in tal caso si tratta, infatti, di norme che si preoccupano di dettare direttive circa il grado di adeguatezza delle modalità espressive usate rispetto all’esigenza pratica dell’effettività del consenso, e non di imporre l’adozione di un determinato mezzo formale.
2006
88-5980107-9
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