Non sono molti i porno italiani a occuparsi della guerra. Durante gli anni ’70, in verità, il cinema nostrano aveva visto la fugace affermazione del cosiddetto filone nazi erotico (o nazisploitation), ovvero pellicole soft-core ambientati in campi di concentramento o case di piacere “speciali” per ufficiali nazisti, che avevano proliferato anche sulla scorta di due antecedenti colti come Il portiere di notte (1973, di Liliana Cavani) e Salon Kitty (1976, di Tinto Brass). Tra questo specifico filone e il porno dei decenni successivi non sembra esserci una continuità discorsiva (oltre che produttiva) diretta. Ciononostante, alcuni frammenti dell’immaginario costitutivo del nazi erotico (le divise, la prigionia femminile, la tortura e la costrizione) riappaiono in un ristretto gruppo di opere che abbandonano il lager per flirtare invece con la guerra in un senso più ampio; in questi film, infatti, la guerra è intesa soprattutto come sospensione delle regole e delle consuetudini della vita quotidiana, come momento cioè in cui le convenzioni sociali esplodono per lasciare spazio a un istinto sessuale eccessivo e a tratti predatorio. Si tratta di operazioni molto diverse tra loro per scelte tematiche e valori industriali, spalmate su un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’80 al secondo decennio degli anni 2000. In generale, questa produzione si fonda su una strategia di “bracconaggio” che vampirizza la storia sociale, i fatti di cronaca e il cinema “legittimo” per allestire una rappresentazione del tutto pretestuosa della guerra, al solo scopo di mettere in scena fantasie di stupro e coercizione.

Predatori in divisa. Immagini e temi della guerra nel porno italiano

ZECCA, Federico
2016-01-01

Abstract

Non sono molti i porno italiani a occuparsi della guerra. Durante gli anni ’70, in verità, il cinema nostrano aveva visto la fugace affermazione del cosiddetto filone nazi erotico (o nazisploitation), ovvero pellicole soft-core ambientati in campi di concentramento o case di piacere “speciali” per ufficiali nazisti, che avevano proliferato anche sulla scorta di due antecedenti colti come Il portiere di notte (1973, di Liliana Cavani) e Salon Kitty (1976, di Tinto Brass). Tra questo specifico filone e il porno dei decenni successivi non sembra esserci una continuità discorsiva (oltre che produttiva) diretta. Ciononostante, alcuni frammenti dell’immaginario costitutivo del nazi erotico (le divise, la prigionia femminile, la tortura e la costrizione) riappaiono in un ristretto gruppo di opere che abbandonano il lager per flirtare invece con la guerra in un senso più ampio; in questi film, infatti, la guerra è intesa soprattutto come sospensione delle regole e delle consuetudini della vita quotidiana, come momento cioè in cui le convenzioni sociali esplodono per lasciare spazio a un istinto sessuale eccessivo e a tratti predatorio. Si tratta di operazioni molto diverse tra loro per scelte tematiche e valori industriali, spalmate su un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’80 al secondo decennio degli anni 2000. In generale, questa produzione si fonda su una strategia di “bracconaggio” che vampirizza la storia sociale, i fatti di cronaca e il cinema “legittimo” per allestire una rappresentazione del tutto pretestuosa della guerra, al solo scopo di mettere in scena fantasie di stupro e coercizione.
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