Quasi costantemente percorso da vibranti meditazioni politiche, il teatro di Mario Luzi (di cui si celebra nel 2014 il centenario della nascita) trova in uno dei suoi drammi più riusciti, "Hystrio" (1987), l’allegoria del conflitto fra la spregiudicatezza del potere e l’indisponibilità dell’arte a farsi esecutrice dei suoi mandati; in questa sua terza opera teatrale, che condivide con le precedenti due – "Libro di Ipazia" e "Rosales" – la tematica dell’intrigo e la questione dell’autonomia della ricerca e della creatività, agisce forse una lontana eco del "Riccardo II", tradotto con grande successo dall’autore fiorentino negli anni Sessanta, almeno per quanto riguarda il tema del complotto ai danni di un vecchio e stanco tiranno da parte di alcuni ambiziosi suoi dignitari che aspirano a sostituirlo. In questo caso il clima di guerra fredda in cui il testo viene concepito suggerisce l’ambientazione in una dittatura dell’Europa orientale, in cui al più grande attore nazionale, Hystrio, viene chiesto di mettere in scena una farsa tesa a ridicolizzare l’autorità del presidente Berek, ma è lo stesso artista un obiettivo collaterale dei congiurati, dal momento che sono temuti il suo prestigio artistico, la sua libertà d’espressione e il coraggio con cui ripropone i grandi classici del passato, monumenti di culture non omogenee al regime. Ma se l’attore riesce a preservare la sua autonomia, ne farà le spese nell’ultima scena la figlia del dittatore, Giulia, innamorata dell’attore e disposta a morire al posto suo, offrendoci l’amara occasione per una riflessione sul prezzo pagato agli egoismi dei regimi e alla libertà dell’arte dalle vite dei popoli e degli individui. Il dialogo finale fra Hystrio e Berek lascia emergere il dubbio che l’autonomia rivendicata dall’arte altro non sia che l’incapacità di pervenire alla soglia dell’autenticità. "Hystrio", dunque, è anche la riflessione sulla latente falsità di un’arte che non si misuri col sangue e col dolore, la confessione struggente dell’intellettuale che, dopo aver rivendicato la propria irriducibilità alla macchina del potere e l’immortalità della propria arte, vede rimanere sul campo un’umanità prostrata e innocente.

«È la vita che resta sul campo»: Mario Luzi e la crudele autonomia del teatro

PEGORARI, DANIELE MARIA
2014-01-01

Abstract

Quasi costantemente percorso da vibranti meditazioni politiche, il teatro di Mario Luzi (di cui si celebra nel 2014 il centenario della nascita) trova in uno dei suoi drammi più riusciti, "Hystrio" (1987), l’allegoria del conflitto fra la spregiudicatezza del potere e l’indisponibilità dell’arte a farsi esecutrice dei suoi mandati; in questa sua terza opera teatrale, che condivide con le precedenti due – "Libro di Ipazia" e "Rosales" – la tematica dell’intrigo e la questione dell’autonomia della ricerca e della creatività, agisce forse una lontana eco del "Riccardo II", tradotto con grande successo dall’autore fiorentino negli anni Sessanta, almeno per quanto riguarda il tema del complotto ai danni di un vecchio e stanco tiranno da parte di alcuni ambiziosi suoi dignitari che aspirano a sostituirlo. In questo caso il clima di guerra fredda in cui il testo viene concepito suggerisce l’ambientazione in una dittatura dell’Europa orientale, in cui al più grande attore nazionale, Hystrio, viene chiesto di mettere in scena una farsa tesa a ridicolizzare l’autorità del presidente Berek, ma è lo stesso artista un obiettivo collaterale dei congiurati, dal momento che sono temuti il suo prestigio artistico, la sua libertà d’espressione e il coraggio con cui ripropone i grandi classici del passato, monumenti di culture non omogenee al regime. Ma se l’attore riesce a preservare la sua autonomia, ne farà le spese nell’ultima scena la figlia del dittatore, Giulia, innamorata dell’attore e disposta a morire al posto suo, offrendoci l’amara occasione per una riflessione sul prezzo pagato agli egoismi dei regimi e alla libertà dell’arte dalle vite dei popoli e degli individui. Il dialogo finale fra Hystrio e Berek lascia emergere il dubbio che l’autonomia rivendicata dall’arte altro non sia che l’incapacità di pervenire alla soglia dell’autenticità. "Hystrio", dunque, è anche la riflessione sulla latente falsità di un’arte che non si misuri col sangue e col dolore, la confessione struggente dell’intellettuale che, dopo aver rivendicato la propria irriducibilità alla macchina del potere e l’immortalità della propria arte, vede rimanere sul campo un’umanità prostrata e innocente.
2014
9788864791395
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11586/150727
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