(Volume oggetto di doppio referaggio cieco, secondo un procedimento standard concordato dai redattori della collana con l’Editore, che ne conserva la relativa documentazione) Il volume esamina le assegnazioni dei beni ai soci, inserendo sistematicamente l’indagine nel più ampio capitolo di ricerca della disciplina fiscale dei trasferimenti tra società e socio. La fattispecie in quanto assume infatti particolare rilevanza soprattutto a fini delle imposte dirette, perché nell’assegnazione si riflette – anzi viene enfatizzata – la complessità del rapporto socio-società, che passa da problematiche in tema di imponibilità delle plusvalenze a quelle dell’esclusione dei dividendi: a tal proposito l’A. dimostra come le due prospettive di cui sopra non possano essere affrontate in modo autonomo e distinto, ma anzi debbano essere trattate unitariamente, perché le modalità con cui l’assegnazione incide – a fini civilistici e fiscali – sulla società assegnatrice si riflettono necessariamente ed immediatamente sul socio percettore: in sostanza, il trattamento fiscale dell’assegnazione in capo al socio dipende dalla natura delle poste di patrimonio netto che la società ha inteso con l’operazione attribuire al socio, ma l’individuazione di tali poste – a sua volta – dipende in parte anche dall’impatto fiscale oltre che contabile dell’assegnazione sulla società erogante. L’analisi si sofferma infatti su questa interrelazione tra socio e società, intesa quale principio cardine del nostro sistema impositivo, e che – anche se codificato in norme frammentate e complesse, forse talvolta non perfettamente coordinate – viene ritenuto dall’A. indispensabile per superare la frattura giuridica derivante dall’autonomia dei soggetti di fronte ad una manifestazione di reddito dai profili evidentemente univoci. In sintesi, la simmetria tra l’imposizione della società e quella del socio fa corollario la necessità di scongiurare il rischio di una doppia imposizione economica dello stesso reddito, e di tener conto sempre – all’opposto – della restituzione del capitale apportato: ciò impone, di fatto, di conservare traccia – almeno a fini fiscali – di tutti i rapporti intercorsi tra il socio e la società in entrambi i sensi in cui si può articolare, con la conseguente stratificazione delle poste del patrimonio netto in relazione non alla loro finalità – come vuole il legislatore civilistico – ma alla loro genesi; con la complicazione, poi, di dover considerare la possibilità che ad un socio possa subentrarne un altro. L’A. esamina quindi come storicamente il legislatore fiscale abbia risposto a tale importante esigenza con una articolata normativa, talvolta ispirata da logiche (forse fobie) antielusive, ma che, salvo alcune marginali distorsioni, ha in sostanza garantito la necessaria correlazione tra le diverse posizioni anche in caso di variazione della compagine sociale. Lo studio ha registrato sul punto che la complessità delle norme fiscali è resa necessaria anche dal limitato ausilio che può offrire la disciplina civilistica in merito alla natura di reddito o di capitale di quello che perviene al socio, in quanto tale corpo normativo, storicamente posto a baluardo della tutela dei creditori sociali, non si interessa di tale distinzione “genetica” all’interno del patrimonio sociale. L’indagine si è rivolta anche sulle modalità con le quali le disposizioni fiscali in tema di assegnazione di beni si inseriscono nel contesto più ampio della disciplina dei rapporti patrimoniali tra soci e società, ed in particolare se risultano adeguate e coerenti rispetto all’intero sistema dell’imposizione sul reddito: il risultato raggiunto si può riassumere in un quadro con elementi certi e chiari, ma anche taluni punti più oscuri. La prima problematica affrontata è incentrata sulla necessità che la discrasia tra valore contabile e valore fiscale del bene assegnato abbia rilevanza fiscale sulla società prima e poi sul socio, piuttosto che direttamente solo sul socio. Sotto il profilo teorico, si può affrontare la questione – in estrema sintesi – con due approcci diametralmente opposti: il primo, rimarcando l’autonomia soggettiva della società di capitali dal suo socio, porta a ritenere indispensabile che il valore effettivo del bene emerga – ed assuma rilevanza fiscale – già nella società assegnatrice, sostanzialmente frammentando l’assegnazione in più fasi, in modo da riproporre gli stessi effetti – civilistici oltre che fiscali – che sarebbero emersi nel caso di una vendita del bene e successiva distribuzione ai soci del ricavato. L’altra impostazione, che all’opposto ridimensiona la separazione a fini fiscali tra il socio e la società e quindi riconosce nella tassazione in capo alla società una sorta di acconto di quella sulla definitiva capacità contributiva del socio, semplifica l’assegnazione del bene in una specie di innesto del bene direttamente nel patrimonio del socio, sul quale si riflettono altrettanto direttamente gli effetti reddituali connessi all’emersione dei plusvalori in capo al socio; sotto il profilo più pratico si caratterizza per la rilevazione dell’operazione in capo alla società assegnatrice in base al valore contabile del bene, sul presupposto che i plusvalori latenti sul bene sono tassati direttamente e solamente in capo al socio, in una ricostruzione che valorizza – forse anacronisticamente – una rigorosa determinazione del reddito di impresa incardinata alle risultanze contabili. Tra le due soluzioni, il legislatore tributario ha scelto – da tempo, fin in vigenza della ricchezza mobile – di prediligere l’imponibilità delle plusvalenze latenti sui beni assegnati già in capo al soggetto societario, e quindi di valorizzare l’attribuzione a valori correnti: stretto corollario di tale soluzione è quello che con l’assegnazione di un bene plusvalente si distribuisce, salvo i necessari approfondimenti, anche la plusvalenza stessa quale utile per il socio. L’indagine si è quindi concentrata sulla causa di tale scelta, se cioè questa sia da ricercare nella volontà anti-elusiva di impedire l’estromissione di beni dall’impresa senza l’assoggettamento in capo alla stessa della loro plusvalenza, oppure nell’intenzione di una sorta di semplificazione, oppure ancora se trattasi di una norma coerente con il sistema di tassazione del reddito di impresa, e quindi necessaria per l’equilibrio di tale sistema nel suo complesso. Lo studio svolto ha portato a valorizzare l’ultima motivazione, con argomentazioni fondate sia sull’analisi storica delle disposizioni che nel tempo si sono stratificate, ma anche in un’ottica di ricostruzione sistematica dell’intero reddito di impresa: la conclusione sul punto raggiunta dall’A. è che nell’assegnazione di beni ai soci la plusvalenza latente su detti beni diviene imponibile non perché è stata “attribuita” ai soci, ma più semplicemente perché quei beni sono stati estromessi dalla impresa e quindi in quel momento deve essere fissato il loro valore “di uscita”, generalmente pari al corrispettivo conseguito ma che nel caso di specie – data l’assenza di un corrispettivo –, deve essere assunto pari al valore normale. In altri termini non è l’operazione in sé che fa scattare la tassazione della plusvalenza, ma la fuoriuscita dei suoi beni dall’impresa, che nell’assegnazione avviene in favore dei soci, ma che potrebbe avvenire anche a seguito di una cessione corrispettiva o di altre vicende erogative. Altro risultato dell’indagine svolta, evidentemente collegato al precedente, è che il concetto di inerenza che rende rilevanti fiscalmente i componenti reddituali deve essere rivisto in un’ottica più ampia rispetto a quella più tradizionale che valorizza il legame con l’attività dell’impresa: infatti, nel momento in cui si acclara che le plusvalenze – ed, aggiungiamo, le minusvalenze salvo le incongruenze sopra riportate – assumono rilevanza per la sola circostanza che il bene in questione viene estromesso dall’impresa e a prescindere dalle modalità con cui ciò avviene, occorre aggiungere alla nozione classica di inerenza all’attività quella di inerenza all’impresa, ovvero la valorizzazione di un legame formale tra bene e patrimonio dell’impresa che rende rilevante fiscalmente ogni vicenda che interessa quel bene, compreso il suo incremento o decremento di valore, indipendentemente dal suo effettivo, o meramente potenziale, inserimento nell’attività della stessa. La presente ricerca ha di seguito spostato la propria attenzione sul socio che riceve l’assegnazione, al fine di verificare se l’operazione in questione trovi in materia di imposte dirette una adeguata regolamentazione con riferimento all’assegnatario, ed in dettaglio se questa risulti coerente con i principi cardine che disciplinano le attribuzioni patrimoniali ricevute dai soci. Anche sotto tale profilo sono state rilevate talune ombre, probabilmente in precedenza non completamente esplorate dalla dottrina, perché nel caso delle assegnazioni ai soci non basta semplicemente riproporre la classica distinzione tra distribuzioni di utili piuttosto che di capitale. Nella ricerca svolta si è evidenziato come nel caso delle assegnazioni di beni ai soci non sia sufficiente la “vivisezione” della porzione di patrimonio netto interessata dall’operazione, come invece accade in tutte le ipotesi più tradizionali di distribuzione in denaro ai soci; riemerge infatti anche in questo profilo dell’assegnazione che riguarda specificatamente i soci-beneficiari l’importanza delle contabilizzazione dell’operazione in capo alla società assegnatrice, di fatto imponendo un comportamento contabile che le disposizioni civilistiche non sembrano invece prescrivere. È stato infatti accertato che l’equazione secondo cui alla plusvalenza del bene assegnato corrisponde una distribuzione di utile in capo al socio percettore di pari importo non risulta pienamente corretta, perché l’operazione oltre a far emergere plusvalori latenti in capo all’impresa, genera a carico di questa un onere tributario, e quindi occorre verificare le modalità concrete – in sostanza, con quali poste, di utili piuttosto che di capitale – con le quali verrà “coperto” contabilmente detto costo; e l’unico modo per ricostruire l’intera vicenda in modo corretto è quello di tenere contabilmente un comportamento – quello della emersione della plusvalenza latente già in capo alla società assegnatrice – che fiscalmente è espressamente previsto, ma che civilisticamente non risulta essere imposto, anche se probabilmente è opportuno a fronte di alcune specifiche esigenze di stampo gius-commercialistico. In conclusione, lo studio delle assegnazioni di beni ai soci ha evidenziato come in tale complessa materia la disciplina del reddito di impresa, pur oggetto di continui maquillages non sempre riusciti (spesso ispirati da fobie antielusive o, peggio, da miraggi di gettito), conservi tuttora un sostanziale equilibrio sia all’interno del soggetto-impresa per quanto attiene la coerenza di trattamento tra le differenti componenti reddituali che con la fattispecie possono emergere, sia al suo esterno con riferimento alla necessaria specularietà tra l’impatto fiscale dell’operazione sulla società assegnatrice e quello in capo al socio assegnatario: e questo equilibrio, segnato da simmetrie ed effetti a catena, consente all’impresa come ai suoi soci di scegliere indipendentemente dalla leva fiscale con quali modalità e schemi societari svolgere la propria attività e le proprie operazioni.

Profili tributari delle assegnazioni di beni ai soci

FORTUNATO, NICOLA
2012-01-01

Abstract

(Volume oggetto di doppio referaggio cieco, secondo un procedimento standard concordato dai redattori della collana con l’Editore, che ne conserva la relativa documentazione) Il volume esamina le assegnazioni dei beni ai soci, inserendo sistematicamente l’indagine nel più ampio capitolo di ricerca della disciplina fiscale dei trasferimenti tra società e socio. La fattispecie in quanto assume infatti particolare rilevanza soprattutto a fini delle imposte dirette, perché nell’assegnazione si riflette – anzi viene enfatizzata – la complessità del rapporto socio-società, che passa da problematiche in tema di imponibilità delle plusvalenze a quelle dell’esclusione dei dividendi: a tal proposito l’A. dimostra come le due prospettive di cui sopra non possano essere affrontate in modo autonomo e distinto, ma anzi debbano essere trattate unitariamente, perché le modalità con cui l’assegnazione incide – a fini civilistici e fiscali – sulla società assegnatrice si riflettono necessariamente ed immediatamente sul socio percettore: in sostanza, il trattamento fiscale dell’assegnazione in capo al socio dipende dalla natura delle poste di patrimonio netto che la società ha inteso con l’operazione attribuire al socio, ma l’individuazione di tali poste – a sua volta – dipende in parte anche dall’impatto fiscale oltre che contabile dell’assegnazione sulla società erogante. L’analisi si sofferma infatti su questa interrelazione tra socio e società, intesa quale principio cardine del nostro sistema impositivo, e che – anche se codificato in norme frammentate e complesse, forse talvolta non perfettamente coordinate – viene ritenuto dall’A. indispensabile per superare la frattura giuridica derivante dall’autonomia dei soggetti di fronte ad una manifestazione di reddito dai profili evidentemente univoci. In sintesi, la simmetria tra l’imposizione della società e quella del socio fa corollario la necessità di scongiurare il rischio di una doppia imposizione economica dello stesso reddito, e di tener conto sempre – all’opposto – della restituzione del capitale apportato: ciò impone, di fatto, di conservare traccia – almeno a fini fiscali – di tutti i rapporti intercorsi tra il socio e la società in entrambi i sensi in cui si può articolare, con la conseguente stratificazione delle poste del patrimonio netto in relazione non alla loro finalità – come vuole il legislatore civilistico – ma alla loro genesi; con la complicazione, poi, di dover considerare la possibilità che ad un socio possa subentrarne un altro. L’A. esamina quindi come storicamente il legislatore fiscale abbia risposto a tale importante esigenza con una articolata normativa, talvolta ispirata da logiche (forse fobie) antielusive, ma che, salvo alcune marginali distorsioni, ha in sostanza garantito la necessaria correlazione tra le diverse posizioni anche in caso di variazione della compagine sociale. Lo studio ha registrato sul punto che la complessità delle norme fiscali è resa necessaria anche dal limitato ausilio che può offrire la disciplina civilistica in merito alla natura di reddito o di capitale di quello che perviene al socio, in quanto tale corpo normativo, storicamente posto a baluardo della tutela dei creditori sociali, non si interessa di tale distinzione “genetica” all’interno del patrimonio sociale. L’indagine si è rivolta anche sulle modalità con le quali le disposizioni fiscali in tema di assegnazione di beni si inseriscono nel contesto più ampio della disciplina dei rapporti patrimoniali tra soci e società, ed in particolare se risultano adeguate e coerenti rispetto all’intero sistema dell’imposizione sul reddito: il risultato raggiunto si può riassumere in un quadro con elementi certi e chiari, ma anche taluni punti più oscuri. La prima problematica affrontata è incentrata sulla necessità che la discrasia tra valore contabile e valore fiscale del bene assegnato abbia rilevanza fiscale sulla società prima e poi sul socio, piuttosto che direttamente solo sul socio. Sotto il profilo teorico, si può affrontare la questione – in estrema sintesi – con due approcci diametralmente opposti: il primo, rimarcando l’autonomia soggettiva della società di capitali dal suo socio, porta a ritenere indispensabile che il valore effettivo del bene emerga – ed assuma rilevanza fiscale – già nella società assegnatrice, sostanzialmente frammentando l’assegnazione in più fasi, in modo da riproporre gli stessi effetti – civilistici oltre che fiscali – che sarebbero emersi nel caso di una vendita del bene e successiva distribuzione ai soci del ricavato. L’altra impostazione, che all’opposto ridimensiona la separazione a fini fiscali tra il socio e la società e quindi riconosce nella tassazione in capo alla società una sorta di acconto di quella sulla definitiva capacità contributiva del socio, semplifica l’assegnazione del bene in una specie di innesto del bene direttamente nel patrimonio del socio, sul quale si riflettono altrettanto direttamente gli effetti reddituali connessi all’emersione dei plusvalori in capo al socio; sotto il profilo più pratico si caratterizza per la rilevazione dell’operazione in capo alla società assegnatrice in base al valore contabile del bene, sul presupposto che i plusvalori latenti sul bene sono tassati direttamente e solamente in capo al socio, in una ricostruzione che valorizza – forse anacronisticamente – una rigorosa determinazione del reddito di impresa incardinata alle risultanze contabili. Tra le due soluzioni, il legislatore tributario ha scelto – da tempo, fin in vigenza della ricchezza mobile – di prediligere l’imponibilità delle plusvalenze latenti sui beni assegnati già in capo al soggetto societario, e quindi di valorizzare l’attribuzione a valori correnti: stretto corollario di tale soluzione è quello che con l’assegnazione di un bene plusvalente si distribuisce, salvo i necessari approfondimenti, anche la plusvalenza stessa quale utile per il socio. L’indagine si è quindi concentrata sulla causa di tale scelta, se cioè questa sia da ricercare nella volontà anti-elusiva di impedire l’estromissione di beni dall’impresa senza l’assoggettamento in capo alla stessa della loro plusvalenza, oppure nell’intenzione di una sorta di semplificazione, oppure ancora se trattasi di una norma coerente con il sistema di tassazione del reddito di impresa, e quindi necessaria per l’equilibrio di tale sistema nel suo complesso. Lo studio svolto ha portato a valorizzare l’ultima motivazione, con argomentazioni fondate sia sull’analisi storica delle disposizioni che nel tempo si sono stratificate, ma anche in un’ottica di ricostruzione sistematica dell’intero reddito di impresa: la conclusione sul punto raggiunta dall’A. è che nell’assegnazione di beni ai soci la plusvalenza latente su detti beni diviene imponibile non perché è stata “attribuita” ai soci, ma più semplicemente perché quei beni sono stati estromessi dalla impresa e quindi in quel momento deve essere fissato il loro valore “di uscita”, generalmente pari al corrispettivo conseguito ma che nel caso di specie – data l’assenza di un corrispettivo –, deve essere assunto pari al valore normale. In altri termini non è l’operazione in sé che fa scattare la tassazione della plusvalenza, ma la fuoriuscita dei suoi beni dall’impresa, che nell’assegnazione avviene in favore dei soci, ma che potrebbe avvenire anche a seguito di una cessione corrispettiva o di altre vicende erogative. Altro risultato dell’indagine svolta, evidentemente collegato al precedente, è che il concetto di inerenza che rende rilevanti fiscalmente i componenti reddituali deve essere rivisto in un’ottica più ampia rispetto a quella più tradizionale che valorizza il legame con l’attività dell’impresa: infatti, nel momento in cui si acclara che le plusvalenze – ed, aggiungiamo, le minusvalenze salvo le incongruenze sopra riportate – assumono rilevanza per la sola circostanza che il bene in questione viene estromesso dall’impresa e a prescindere dalle modalità con cui ciò avviene, occorre aggiungere alla nozione classica di inerenza all’attività quella di inerenza all’impresa, ovvero la valorizzazione di un legame formale tra bene e patrimonio dell’impresa che rende rilevante fiscalmente ogni vicenda che interessa quel bene, compreso il suo incremento o decremento di valore, indipendentemente dal suo effettivo, o meramente potenziale, inserimento nell’attività della stessa. La presente ricerca ha di seguito spostato la propria attenzione sul socio che riceve l’assegnazione, al fine di verificare se l’operazione in questione trovi in materia di imposte dirette una adeguata regolamentazione con riferimento all’assegnatario, ed in dettaglio se questa risulti coerente con i principi cardine che disciplinano le attribuzioni patrimoniali ricevute dai soci. Anche sotto tale profilo sono state rilevate talune ombre, probabilmente in precedenza non completamente esplorate dalla dottrina, perché nel caso delle assegnazioni ai soci non basta semplicemente riproporre la classica distinzione tra distribuzioni di utili piuttosto che di capitale. Nella ricerca svolta si è evidenziato come nel caso delle assegnazioni di beni ai soci non sia sufficiente la “vivisezione” della porzione di patrimonio netto interessata dall’operazione, come invece accade in tutte le ipotesi più tradizionali di distribuzione in denaro ai soci; riemerge infatti anche in questo profilo dell’assegnazione che riguarda specificatamente i soci-beneficiari l’importanza delle contabilizzazione dell’operazione in capo alla società assegnatrice, di fatto imponendo un comportamento contabile che le disposizioni civilistiche non sembrano invece prescrivere. È stato infatti accertato che l’equazione secondo cui alla plusvalenza del bene assegnato corrisponde una distribuzione di utile in capo al socio percettore di pari importo non risulta pienamente corretta, perché l’operazione oltre a far emergere plusvalori latenti in capo all’impresa, genera a carico di questa un onere tributario, e quindi occorre verificare le modalità concrete – in sostanza, con quali poste, di utili piuttosto che di capitale – con le quali verrà “coperto” contabilmente detto costo; e l’unico modo per ricostruire l’intera vicenda in modo corretto è quello di tenere contabilmente un comportamento – quello della emersione della plusvalenza latente già in capo alla società assegnatrice – che fiscalmente è espressamente previsto, ma che civilisticamente non risulta essere imposto, anche se probabilmente è opportuno a fronte di alcune specifiche esigenze di stampo gius-commercialistico. In conclusione, lo studio delle assegnazioni di beni ai soci ha evidenziato come in tale complessa materia la disciplina del reddito di impresa, pur oggetto di continui maquillages non sempre riusciti (spesso ispirati da fobie antielusive o, peggio, da miraggi di gettito), conservi tuttora un sostanziale equilibrio sia all’interno del soggetto-impresa per quanto attiene la coerenza di trattamento tra le differenti componenti reddituali che con la fattispecie possono emergere, sia al suo esterno con riferimento alla necessaria specularietà tra l’impatto fiscale dell’operazione sulla società assegnatrice e quello in capo al socio assegnatario: e questo equilibrio, segnato da simmetrie ed effetti a catena, consente all’impresa come ai suoi soci di scegliere indipendentemente dalla leva fiscale con quali modalità e schemi societari svolgere la propria attività e le proprie operazioni.
2012
9788834829776
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