«Il notissimo San Felice in cattedra di Lorenzo Lotto, nella chiesa di San Domenico a Giovinazzo, la cui esecuzione documentata risale al 1542: scoperto e individuato dal Berenson nel 1897 e incluso già nel 1905 nella riedizione della sua monografia sul Lotto; studiato diffusamente dal Salmi che, all’oscuro della scoperta del Berenson, lo rinvenne ancora abbandonato nella chiesa di San Domenico; e poi sempre ricordato dalla critica». Nel 1969, Maria Stella Calò pubblicava La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari. Nella sua monografia la studiosa sceglieva di spendere le parole appena ricordate in relazione ad una delle opere —appunto il San Felice in cattedra di Lorenzo Lotto— da ritenersi forse tra le più emblematiche e, al tempo stesso, rappresentative del tema cui è dedicato un intero capitolo del volume di cui sopra, ossia quello sui Dipinti veneti importati. Nato dalla tesi di laurea da lei discussa nel 1961 con Adriano Prandi, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Ateneo barese, il libro venne costruito a discendere da almeno due importanti precedenti storiografici. Da un lato, si intendeva recuperare il ruolo decisivo svolto da Bernard Berenson con la visita compiuta in Puglia nell’aprile del 1897, circostanza che gli aveva consentito di accreditarsi (1905) come scopritore del Lotto di Giovinazzo trovato «in condizioni pietose», ma con «un colorito acceso e una tecnica vicinissima a quella del Vecellio»; dall’altro, si gettavano le basi per dare continuità alle intuizioni di Gustavo Frizzoni (Opere di pittura veneta in Puglia, 1914) e, soprattutto, a quelle di Mario Salmi che, nei suoi Appunti per la storia dell’arte in Puglia (1919), non aveva mancato di ammirare il «grosso San Felice, un frate che pontifica, ma che dimostra, a traverso l’adipe del suo corpo, una certa acutezza di pensiero». Al netto di Berenson, i diacronici saggi di Frizzoni (1914) e di Salmi (1919) nonché, per il XVI e il XVII secolo, il lavoro di tesi di Calò (1961), sono da intendersi come le prime organiche rassegne sulla pittura regionale apula, poi spettacolarizzate con la grande Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo antico al Rococò (1964), dove il San Felice di Lotto fece la sua comparsa, la seconda in ordine di tempo dopo quella intercorsa nella prima retrospettiva sull’artista (Venezia, 1953). La mostra di Bari venne curata da un allora giovane conservatore della Pinacoteca Provinciale, Michele d’Elia, futuro direttore dell’ICR, allievo di Prandi come Calò, in stretto contatto anche lui con Salmi che fu chiamato a collaborare all’esposizione del 1964 in virtù dei suoi studi pregressi e, soprattutto, per il suo ruolo di presidente del Consiglio Superiore delle Antichità e delle Belle Arti. Salmi, a sua volta, posto alla guida del Comitato Tecnico-Scientifico della Mostra, ebbe modo di coinvolgere Paola Barocchi, in quel momento docente di Storia dell’Arte (lo sarà dal 1958 al 1966) presso l’Università di Lecce. Certo l’esposizione barese non incontrò l’incondizionato favore della comunità scientifica. Rodolfo Pallucchini, nella recensione scritta per Arte Veneta, andò a stigmatizzare «il criterio di una rassegna che comprendesse una scelta antologica del patrimonio artistico mobile pugliese dal IV secolo al Rococò», perdendo così a suo dire «l’occasione di uno scandaglio (…) delle aree di gusto che si sono susseguite e talvolta sovrapposte in tale regione». Nella medesima recensione, Pallucchini poi avrebbe persino individuato quale possibile alternativa al modello generalista dell’evento barese quello, più perimetrato, adottato da Pietro Zampetti con la Mostra della pittura veneta nelle Marche (Ancona, 1950). Tuttavia, non mancando di apprezzare la presenza del quadro di Giovinazzo —da lui già visto «alla mostra veneziana del 1953»—, Pallucchini definì comunque «sostanzioso» il catalogo dell’esposizione «munito, tra l’altro, di una preziosa bibliografia». I contributi del 1914-1919 (Frizzoni, Salmi) e del 1961-69 (Calò Mariani), passando per la mostra del 1964 (D’Elia), che, ricordiamolo, fu l’occasione per aprire la Puglia a un inedito interesse per il suo patrimonio ben attestato dalle numerose altre recensioni apparse su riviste come Kunstchronik (G. Urbani), Bollettino d’Arte (l. Casanova), Arte antica e moderna (M. Calì), Antichità Viva (U. Baldini) e Napoli nobilissima (R. Mormone), possono essere intesi quale strumento per il recupero di una vicenda in larga parte ancora da mettere a sistema, questo nonostante negli anni passati e sino ai tempi più recenti non siano mancate —per riprendere qui Pallucchini— le occasioni di «scandaglio». Sullo sfondo dell’esperienza legata alla fondazione di contenitori come i Musei Provinciali di Lecce (1869) e di Bari (1890), per arrivare soprattutto alla mostra del 1964, allestita negli spazi della nuova Pinacoteca Provinciale (aperta nel 1928 ma sottoposta a completo aggiornamento dal 1961), la proposta intende leggere le modalità e le fortune espositive delle presenze esogene di matrice veneta nella cosiddetta Puglia storica, dunque a comprendere anche la Lucania cara a Wart Arslan (1928). I Vivarini, Giovanni Bellini, Veronese, Tintoretto e sino a Lotto che qui interessa in particolare, sono gli artisti i cui lavori hanno trovato spazio nelle raccolte museali permanenti ed ‘effimere’ poc’anzi elencate, da intendersi come collettori di molte delle opere in origine conservate nelle chiese dei centri «between Potenza and Taranto» visitati da BB ancora dopo il 1897. Non stupisce quindi che una simile ricchezza di situazioni finì con il sollecitare anche la curiosità di uno studioso sofisticato come Eugenio Battisti: in un’inedita lettera indirizzata a D’Elia e scritta per annunciargli la sua prossima visita alla Mostra del 1964, egli gli suggerì di dedicarsi a una riflessione ad ampio raggio «contro la negazione di un’arte autoctona in Puglia» e sul «problema dell’arte provinciale». Considerando la complessità della proposta avanzata da Battisti a D’Elia, con la prospettiva di farne un contributo per la rivista Marcatré o per il settimanale L’Espresso, ne esce così un contesto distante dall’idea di area culturalmente defilata che, per la Puglia, è stata coltivata almeno sino alla prima metà del Novecento. Quest’ultima, una lettura ben radicata sin da quando a Matera, tra il 1882 e il 1884, dunque in anni di poco anteriori ai primi sguardi berensoniani, giunse Giovanni Pascoli che, insegnante di greco e latino di fresca nomina, subito cominciò a scrivere le sue Lettere dall’Affrica la cui icastica efficacia, in ogni caso, ben attesta quale possa essere stato il rumor di una scoperta ‘lontana’ nella Puglia finibus terrae come il San Felice in cattedra di Lotto.

#weareinpuglia1964. Lorenzo Lotto e i pittori veneti in mostra

Andrea Leonardi
2019-01-01

Abstract

«Il notissimo San Felice in cattedra di Lorenzo Lotto, nella chiesa di San Domenico a Giovinazzo, la cui esecuzione documentata risale al 1542: scoperto e individuato dal Berenson nel 1897 e incluso già nel 1905 nella riedizione della sua monografia sul Lotto; studiato diffusamente dal Salmi che, all’oscuro della scoperta del Berenson, lo rinvenne ancora abbandonato nella chiesa di San Domenico; e poi sempre ricordato dalla critica». Nel 1969, Maria Stella Calò pubblicava La pittura del Cinquecento e del primo Seicento in Terra di Bari. Nella sua monografia la studiosa sceglieva di spendere le parole appena ricordate in relazione ad una delle opere —appunto il San Felice in cattedra di Lorenzo Lotto— da ritenersi forse tra le più emblematiche e, al tempo stesso, rappresentative del tema cui è dedicato un intero capitolo del volume di cui sopra, ossia quello sui Dipinti veneti importati. Nato dalla tesi di laurea da lei discussa nel 1961 con Adriano Prandi, direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Ateneo barese, il libro venne costruito a discendere da almeno due importanti precedenti storiografici. Da un lato, si intendeva recuperare il ruolo decisivo svolto da Bernard Berenson con la visita compiuta in Puglia nell’aprile del 1897, circostanza che gli aveva consentito di accreditarsi (1905) come scopritore del Lotto di Giovinazzo trovato «in condizioni pietose», ma con «un colorito acceso e una tecnica vicinissima a quella del Vecellio»; dall’altro, si gettavano le basi per dare continuità alle intuizioni di Gustavo Frizzoni (Opere di pittura veneta in Puglia, 1914) e, soprattutto, a quelle di Mario Salmi che, nei suoi Appunti per la storia dell’arte in Puglia (1919), non aveva mancato di ammirare il «grosso San Felice, un frate che pontifica, ma che dimostra, a traverso l’adipe del suo corpo, una certa acutezza di pensiero». Al netto di Berenson, i diacronici saggi di Frizzoni (1914) e di Salmi (1919) nonché, per il XVI e il XVII secolo, il lavoro di tesi di Calò (1961), sono da intendersi come le prime organiche rassegne sulla pittura regionale apula, poi spettacolarizzate con la grande Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo antico al Rococò (1964), dove il San Felice di Lotto fece la sua comparsa, la seconda in ordine di tempo dopo quella intercorsa nella prima retrospettiva sull’artista (Venezia, 1953). La mostra di Bari venne curata da un allora giovane conservatore della Pinacoteca Provinciale, Michele d’Elia, futuro direttore dell’ICR, allievo di Prandi come Calò, in stretto contatto anche lui con Salmi che fu chiamato a collaborare all’esposizione del 1964 in virtù dei suoi studi pregressi e, soprattutto, per il suo ruolo di presidente del Consiglio Superiore delle Antichità e delle Belle Arti. Salmi, a sua volta, posto alla guida del Comitato Tecnico-Scientifico della Mostra, ebbe modo di coinvolgere Paola Barocchi, in quel momento docente di Storia dell’Arte (lo sarà dal 1958 al 1966) presso l’Università di Lecce. Certo l’esposizione barese non incontrò l’incondizionato favore della comunità scientifica. Rodolfo Pallucchini, nella recensione scritta per Arte Veneta, andò a stigmatizzare «il criterio di una rassegna che comprendesse una scelta antologica del patrimonio artistico mobile pugliese dal IV secolo al Rococò», perdendo così a suo dire «l’occasione di uno scandaglio (…) delle aree di gusto che si sono susseguite e talvolta sovrapposte in tale regione». Nella medesima recensione, Pallucchini poi avrebbe persino individuato quale possibile alternativa al modello generalista dell’evento barese quello, più perimetrato, adottato da Pietro Zampetti con la Mostra della pittura veneta nelle Marche (Ancona, 1950). Tuttavia, non mancando di apprezzare la presenza del quadro di Giovinazzo —da lui già visto «alla mostra veneziana del 1953»—, Pallucchini definì comunque «sostanzioso» il catalogo dell’esposizione «munito, tra l’altro, di una preziosa bibliografia». I contributi del 1914-1919 (Frizzoni, Salmi) e del 1961-69 (Calò Mariani), passando per la mostra del 1964 (D’Elia), che, ricordiamolo, fu l’occasione per aprire la Puglia a un inedito interesse per il suo patrimonio ben attestato dalle numerose altre recensioni apparse su riviste come Kunstchronik (G. Urbani), Bollettino d’Arte (l. Casanova), Arte antica e moderna (M. Calì), Antichità Viva (U. Baldini) e Napoli nobilissima (R. Mormone), possono essere intesi quale strumento per il recupero di una vicenda in larga parte ancora da mettere a sistema, questo nonostante negli anni passati e sino ai tempi più recenti non siano mancate —per riprendere qui Pallucchini— le occasioni di «scandaglio». Sullo sfondo dell’esperienza legata alla fondazione di contenitori come i Musei Provinciali di Lecce (1869) e di Bari (1890), per arrivare soprattutto alla mostra del 1964, allestita negli spazi della nuova Pinacoteca Provinciale (aperta nel 1928 ma sottoposta a completo aggiornamento dal 1961), la proposta intende leggere le modalità e le fortune espositive delle presenze esogene di matrice veneta nella cosiddetta Puglia storica, dunque a comprendere anche la Lucania cara a Wart Arslan (1928). I Vivarini, Giovanni Bellini, Veronese, Tintoretto e sino a Lotto che qui interessa in particolare, sono gli artisti i cui lavori hanno trovato spazio nelle raccolte museali permanenti ed ‘effimere’ poc’anzi elencate, da intendersi come collettori di molte delle opere in origine conservate nelle chiese dei centri «between Potenza and Taranto» visitati da BB ancora dopo il 1897. Non stupisce quindi che una simile ricchezza di situazioni finì con il sollecitare anche la curiosità di uno studioso sofisticato come Eugenio Battisti: in un’inedita lettera indirizzata a D’Elia e scritta per annunciargli la sua prossima visita alla Mostra del 1964, egli gli suggerì di dedicarsi a una riflessione ad ampio raggio «contro la negazione di un’arte autoctona in Puglia» e sul «problema dell’arte provinciale». Considerando la complessità della proposta avanzata da Battisti a D’Elia, con la prospettiva di farne un contributo per la rivista Marcatré o per il settimanale L’Espresso, ne esce così un contesto distante dall’idea di area culturalmente defilata che, per la Puglia, è stata coltivata almeno sino alla prima metà del Novecento. Quest’ultima, una lettura ben radicata sin da quando a Matera, tra il 1882 e il 1884, dunque in anni di poco anteriori ai primi sguardi berensoniani, giunse Giovanni Pascoli che, insegnante di greco e latino di fresca nomina, subito cominciò a scrivere le sue Lettere dall’Affrica la cui icastica efficacia, in ogni caso, ben attesta quale possa essere stato il rumor di una scoperta ‘lontana’ nella Puglia finibus terrae come il San Felice in cattedra di Lotto.
2019
978-88-87186-80-2
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