Il saggio segue la costruzione, lungo l’intero corpus di Pasolini, di un dialogo a di-stanza che il poeta bolognese instaura con Dante, a partire dagli anni Cinquanta (quelli di Ragazzi di vita e de Le ceneri di Gramsci, di Una vita violenta a de La reli-gione del mio tempo) in cui egli si dedicherà alla descrizione partecipata, all’attraversamento diretto e compromesso dell’inferno metropolitano e neocapitali-stico per il quale gli sono necessarie le suggestioni di dantismi che chiamerei ‘d’ambiente’, lemmi e sintagmi il più delle volte generici, eppure disseminati in una quantità tale da non lasciare campo ad equivoci circa la volontarietà di creare la fili-grana di un mondo abnorme e deforme, letto nella prima cantica e restituito nei «sof-focanti miasmi», nel fango, nelle muraglie ossidate e fumose lungo le quali si aggira-no le «esistenze dannate» dei ragazzi, alternativamente accidiosi e iracondi, affacciati agli argini di un Tevere paludoso e maleodorante di memoria stigia. Dopo lo snodo del 1960, invece, Pasolini perderà quella feconda tensione ottimistica circa il valore civile e costruttivo della scrittura e si sentirà espulso ai margini del sistema produtti-vo e della società; anche stavolta è soccorso dal paradigma dantesco (come diviene chiaro in numerose pagine di Poesia in forma di rosa e di Accattone e più ancora nel-la vicenda del tentativo di riscrittura integrale della Commedia, da La mortaccia a La Divina Mimesis e poi ancora in Trasumanar e organizzar e Petrolio), non più soltan-to per una facile analogia fra le lacerazioni sociali contemporanee e il crudo scenario infernale, ma per l’intimo riconoscimento nella vicenda stessa del poeta medievale, l’intellettuale che, dinanzi al bivio del comodo conformismo o dell’ostilità rispetto al proprio tempo, sceglie la seconda e più dolorosa via e sconta, dunque, il suo necessa-rio esilio dalla città, pena la morte violenta dentro le sue mura un tempo protettive.

Il pane dei borghesi "non sa di sale". Dantismo e profezia in P.P. Pasolini

PEGORARI, DANIELE MARIA
2005-01-01

Abstract

Il saggio segue la costruzione, lungo l’intero corpus di Pasolini, di un dialogo a di-stanza che il poeta bolognese instaura con Dante, a partire dagli anni Cinquanta (quelli di Ragazzi di vita e de Le ceneri di Gramsci, di Una vita violenta a de La reli-gione del mio tempo) in cui egli si dedicherà alla descrizione partecipata, all’attraversamento diretto e compromesso dell’inferno metropolitano e neocapitali-stico per il quale gli sono necessarie le suggestioni di dantismi che chiamerei ‘d’ambiente’, lemmi e sintagmi il più delle volte generici, eppure disseminati in una quantità tale da non lasciare campo ad equivoci circa la volontarietà di creare la fili-grana di un mondo abnorme e deforme, letto nella prima cantica e restituito nei «sof-focanti miasmi», nel fango, nelle muraglie ossidate e fumose lungo le quali si aggira-no le «esistenze dannate» dei ragazzi, alternativamente accidiosi e iracondi, affacciati agli argini di un Tevere paludoso e maleodorante di memoria stigia. Dopo lo snodo del 1960, invece, Pasolini perderà quella feconda tensione ottimistica circa il valore civile e costruttivo della scrittura e si sentirà espulso ai margini del sistema produtti-vo e della società; anche stavolta è soccorso dal paradigma dantesco (come diviene chiaro in numerose pagine di Poesia in forma di rosa e di Accattone e più ancora nel-la vicenda del tentativo di riscrittura integrale della Commedia, da La mortaccia a La Divina Mimesis e poi ancora in Trasumanar e organizzar e Petrolio), non più soltan-to per una facile analogia fra le lacerazioni sociali contemporanee e il crudo scenario infernale, ma per l’intimo riconoscimento nella vicenda stessa del poeta medievale, l’intellettuale che, dinanzi al bivio del comodo conformismo o dell’ostilità rispetto al proprio tempo, sceglie la seconda e più dolorosa via e sconta, dunque, il suo necessa-rio esilio dalla città, pena la morte violenta dentro le sue mura un tempo protettive.
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